La figlia del capitano – Aleksandr Sergeevic Puškin

SINTESI DEL LIBRO:
Sarebbe della guardia doman stesso capitano "Non occorre: servizio presti
nell'esercito".
Ben detto! Che si travagli un po'...
[...] Ma chi è suo padre?
KNIAZNIN (1)
Il padre mio, Andréj Petrovic' Griniòv, nella sua gioventù aveva servito sotto
il conte Minich, e era andato in pensione da primo maggiore nel 17... Da
allora era vissuto nella sua campagna di Simbìrsk, dove aveva anche sposato
la signorina Avdotia Vasìlievna Ju., figlia di un nobile povero del luogo.
Eravamo nove figli.
Tutti i miei fratelli e sorelle morirono nell'infanzia. Io fui iscritto nel
reggimento Semiònovski come sergente, grazie al maggiore della guardia
principe B., nostro prossimo parente. Fui considerato in licenza fino al
termine degli studi. A quel tempo non ci si cresceva al modo di oggi. Dall'età
di cinque anni fui messo in mano allo staffiere Savelic', datomi come
precettore per la sua sobria condotta. Sotto la sua vigilanza, nel dodicesimo
anno, imparai a leggere e scrivere il russo, e potevo assai correttamente
giudicare delle qualità di un levriero maschio.
A quel tempo il babbo prese per me un francese, "mossié" Beaupré, che
fecero venire da Mosca con l'annuale scorta di vino e d'olio d'oliva. La sua
venuta spiacque molto a Savelic'.
"Grazie a Dio", egli bofonchiava tra sé, "il bimbo è, sembra, lavato, pettinato,
nutrito. Che bisogno c'era di spendere denaro d'avanzo e prendere un 'mossié',
come se ci mancasse gente nostra!".
Beaupré nella patria sua era stato parrucchiere, quindi in Prussia soldato, poi
era venuto in Russia "pour être outchitel"
(per fare il precettore), senza capire molto il significato di questa parola. Era
un buon figliuolo, ma sventato e sregolato all'estremo. Sua principale
debolezza era la passione per il bel sesso; non di rado a causa delle sue
tenerezze riceveva spintoni per i quali gemeva per ventiquattr'ore intere.
Inoltre non era nemmeno, secondo la sua espressione, "un nemico della
bottiglia", cioè, a dirla in russo, gli piaceva vuotarne un goccio di troppo.
Ma poiché il vino si serviva da noi solo a pranzo, e eziandio un bicchierino a
testa, in occasione di che il precettore di solito lo saltavano, il mio Beaupré si
abituò prestissimo all'acquavite russa, e cominciò perfino a preferirla ai vini
della sua patria, come senza confronto più salutare per lo stomaco.
C'intendemmo subito, e, sebbene per contratto fosse tenuto a insegnarmi "il
francese, il tedesco e tutte le scienze", egli preferì svelto svelto imparare da
me a masticare il russo, e dopo ciascuno di noi due si occupava ormai dei
fatti propri. Vivevamo in perfetta armonia. Né io desideravo altro mentore.
Ma ben presto il destino ci separò, e ecco per qual vicenda.
La lavandaia Palaska, una ragazza grossa e butterata, e la guercia vaccara
Akulka si accordarono per gettarsi a un tempo ai piedi della mamma,
accusandosi di colpevole debolezza e lamentandosi in pianto di "mossié", che
aveva circuito la loro inesperienza. Alla mamma con queste cose non piaceva
scherzare e se ne dolse col babbo. Egli fece pronta giustizia. Mandò subito a
chiamare quella canaglia di francese. Gli riferirono che "mossié" stava
dandomi lezione. Il babbo venne nella mia camera. In quel momento Beaupré
dormiva sul letto il sonno dell'innocenza. Io ero occupato in una faccenda.
Bisogna sapere che per me era stata fatta venire da Mosca una carta
geografica. Essa 1
pendeva alla parete senz'uso di sorta, e da un pezzo mi aveva tentato per
l'ampiezza e la bontà della carta. Avevo risoluto di farne un aquilone e,
approfittando del sonno di Beaupré, mi ero messo all'opera. Il babbo entrò
proprio mentre adattavo una coda di stoppa al Capo di Buona Speranza.
Vedendo il mio esercizio di geografia, il babbo mi tirò un orecchio, poi corse
da Beaupré, lo svegliò senza tanti riguardi e prese a caricarlo di rimbrotti.
Beaupré, piccino piccino, voleva sollevarsi e non poteva: il disgraziato
francese era ubriaco fradicio. Una le paga tutte. Il babbo lo sollevò per il
bavero dal letto, lo spinse fuori della porta e quello stesso giorno lo cacciò
via, con indescrivibile gioia di Savelic'. E così terminò la mia educazione.
Vivevo da fanciullo, inseguendo i colombi e giocando a cavallina coi monelli
della servitù. Frattanto compii sedici anni. Qui la mia sorte mutò.
Una volta in autunno la mamma coceva in salotto della confettura di miele e
io, leccandomi le labbra, guardavo ribollire la liquida crosta. Il babbo presso
la finestra leggeva il "Calendario di Corte", da lui ricevuto ogni anno. Questo
libro aveva sempre su lui un forte influsso: non lo rileggeva mai senza un
particolare interesse, e quella lettura sempre gli procurava uno stupefacente
rimescolio di bile. La mamma, che sapeva a memoria tutte le sue usanze e
consuetudini, cercava sempre di ficcare il malcapitato libro il più lontano
possibile, e in tal modo il "Calendario di Corte" non gli veniva sott'occhi a
volte per interi mesi. In compenso, quando per caso lo trovava, non se lo
lasciava più scappare di mano per ore intere. E così, il babbo leggeva il
"Calendario di Corte", alzando di tanto in tanto le spalle e ripetendo
sottovoce: "Tenente generale!... Nella mia compagnia era sergente!...
Cavaliere dei due ordini russi!... Ma è un pezzo che noi?...". Infine il babbo
scagliò il "Calendario" sul divano e s'immerse in una meditazione che non
presagiva nulla di buono.
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