L’invenzione occasionale – Elena Ferrante

SINTESI DEL LIBRO:

Tempo fa ho progettato di raccontare le mie prime volte. Ne ho elencate
un certo numero: la prima volta che ho visto il mare, la prima volta che ho
fatto un viaggio in aereo, la prima volta che mi sono ubriacata, la prima
volta che mi sono innamorata, la prima volta che ho fatto l’amore. È stato
un esercizio tanto arduo quanto vano. D’altra parte come poteva essere
altrimenti? Guardiamo le prime volte con un’indulgenza eccessiva. Per
loro natura si fondano sull’inesperienza, sono state presto ingoiate da
tutte le volte che sono seguite, non hanno avuto il tempo di assumere una
loro forma autonoma. E tuttavia le rievochiamo con simpatia, con
rimpianto, attribuendo loro la potenza dell’irripetibile. Per via di questa
costituzionale incongruenza il mio progetto ha cominciato a imbarcare
acqua subito, ma è naufragato definitivamente solo quando ho provato a
raccontare con verità il primo amore. In questo caso specifico ho fatto un
grande sforzo di memoria alla ricerca di elementi significativi e ne ho
trovati veramente pochi. Lui era molto alto, molto magro, e mi pareva
bello. Aveva diciassette anni, io quindici. Ci vedevamo ogni giorno alle sei
del pomeriggio. Andavamo in una viuzza deserta dietro la stazione dei
pullman. Lui mi parlava ma poco, mi baciava ma poco, mi accarezzava ma
poco. Gli interessava soprattutto che lo accarezzassi io. Una sera – era
sera? – l’ho baciato come mi sarebbe piaciuto che lui mi baciasse. L’ho
fatto con una tale avida, impudica intensità, che dopo ho deciso di non
vederlo più. Questo fatto però – l’unico essenziale per il mio racconto –
non sapevo se era davvero accaduto in quella occasione o nel corso di altri
piccoli amori che erano seguiti. E poi lui era davvero così alto? E ci
vedevamo davvero dietro la stazione dei pullman? Alla fine ho scoperto
che del mio primo amore ricordavo con precisione soprattutto il mio stato
confusionale. Amavo quel ragazzo al punto che vederlo mi toglieva ogni
percezione del mondo e mi sentivo prossima allo svenimento non per
debolezza ma per eccesso di energia. Niente mi era sufficiente, volevo di
più, e mi sorprendeva che lui invece, dopo tanto volermi, mi trovasse
all’improvviso superflua e scappasse via come se fossi diventata inutile.
Bene, mi sono detta, scriverai di quanto è complessivamente carente, e
misterioso, il primo amore. Ma più ci lavoravo, più registravo vaghezze,
ansie, insoddisfazione. Sicché la scrittura si ribellava, tendeva a colmare
lacune, a dare all’esperienza la malinconia stereotipata dell’adolescenza
perduta. Per cui ho detto basta con il racconto delle prime volte. Ciò che
siamo state all’origine è solo una macchia confusa di colore contemplata
dalla sponda di ciò che siamo diventate.
Paure 27 gennaio 2018
Non sono coraggiosa. Temo innanzitutto qualsiasi cosa strisci, e più di
ogni altra i serpenti. Temo i ragni, i tarli, le zanzare, persino le mosche.
Temo l’altezza e quindi gli ascensori, le funivie, gli aerei. Temo la stessa
terra su cui poggiamo i piedi quando immagino che potrebbe spalancarsi
o, per un guasto improvviso nel congegno universale, cascar giù come
nella filastrocca che recitavamo da piccole quando facevamo il girotondo
(giro giro tondo, casca il mondo, casca la terra, tutti giù per terra: quanto
mi terrorizzavano queste parole). Temo tutti gli esseri umani quando
diventano violenti: li temo se urlano, se insultano, se sfoggiano parole di
disprezzo, mazze, catene, armi da taglio o da fuoco, bombe atomiche.
Eppure da ragazza, in ogni occasione in cui bisognava mostrarsi impavide,
io mi obbligavo a essere impavida. Presto mi sono abituata a temere meno
i pericoli veri o immaginari e più, molto di più, il momento in cui altri o
altre reagivano come io, paralizzata, non riuscivo a reagire. Così, le mie
amiche strillavano perché c’era un ragno? Io vincevo il disgusto e lo
ammazzavo. L’uomo che amavo mi proponeva una vacanza in alta
montagna con inevitabili voli in seggiovia? Colavo sudore ma ci andavo.
Una volta, con scopa e paletta, urlando, ho rispedito all’aperto una serpe
che il gatto mi aveva portato sotto il letto. E se qualcuno minaccia le mie
figlie, me, qualsiasi essere umano, qualsiasi animale non aggressivo, io
vinco la voglia di scappare. L’opinione corrente è che chi reagisce come
caparbiamente mi sono addestrata a reagire io abbia il vero coraggio,
quello che consiste appunto nel vincere la paura. Ma io non sono
d’accordo. Noi persone pavide–combattive collochiamo in cima a tutte le
nostre paure la paura di perdere la stima per noi stesse. Ci assegniamo
immodestamente un grandissimo valore e pur di non trovarci faccia a
faccia con la nostra degradazione siamo capaci di qualsiasi cosa. Insomma
ricacciamo indietro le paure non per altruismo ma per egoismo. E perciò,
devo ammettere, io mi temo. So ormai da parecchio tempo di poter
eccedere e quindi sto provando ad attenuare le reazioni aggressive a cui
mi sono costretta fin da bambina. Sto imparando ad accettare la paura,
perfino a mostrarla con autoironia. Ho cominciato a farlo quando ho
capito che le mie figlie si spaventavano, se le difendevo con una foga
esagerata da pericoli piccoli, grandi, immaginari. La cosa che forse bisogna
temere di più è la furia delle persone atterrite.

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