Il problema Spinoza – Irvin D. Yalom

SINTESI DEL LIBRO:
Mentre gli ultimi raggi di luce occhieggiano dalle acque dello
Zwanenburgwal, Amsterdam chiude i battenti. I tintori raccolgono
le stoffe color magenta e cremisi che sono state stese ad asciugare
sulle rive di pietra del canale. I mercanti arrotolano i tendoni e
chiudono le saracinesche delle loro bancarelle. Qualche operaio che
arranca verso casa si ferma per uno spuntino e un bicchiere di
grappa olandese ai chioschi d’aringhe lungo il canale, per poi
continuare la sua strada. Amsterdam si muove lentamente: la città è
in lutto, sta ancora cercando di riprendersi dalla pestilenza che solo
pochi mesi prima ha ucciso una persona su nove.
A pochi metri dal canale, al numero 4 di Breestraat, il debitore
insolvente Rembrandt van Rijn, un po’ alticcio, appone un’ultima
pennellata al quadro Giacobbe benedice i figli di Giuseppe, scrive il
proprio nome sull’angolo destro inferiore, getta la tavolozza per
terra e s’avvia giù per la stretta scala tortuosa. La casa, destinata a
diventare il suo museo e memoriale tre secoli più tardi, in questo
momento è testimone della sua vergogna e brulica di creditori
interessati alla prossima asta di tutti i beni dell’artista. Spingendo da
parte rudemente gli zotici che incrocia sulla scala, Rembrandt esce
dalla porta principale, inspira l’aria salmastra e s’avvia con passo
incerto verso la taverna all’angolo.
A Delft, settanta chilometri a sud, un altro artista sta
cominciando la sua ascesa. Il venticinquenne Johannes Vermeer dà
un’ultima occhiata al suo nuovo quadro, La mezzana. Lo esamina da
sinistra a destra. Prima la prostituta con il corpetto di un magnifico
colore giallo. Bene. Bene. Il giallo splende come un lucido raggio di
sole. E poi il gruppo di uomini che la circonda. Eccellente, ognuno di
loro potrebbe tranquillamente uscire dalla tela e dare inizio a una
conversazione. Il pittore si china per cogliere lo sguardo appena
accennato, ma penetrante, di un giovanotto ghignante con il cappello
da damerino. Con un cenno del capo saluta il proprio ritratto in
miniatura. Molto soddisfatto, firma con la sua sigla l’angolo destro
inferiore.
Di nuovo ad Amsterdam, al numero 57 di Breestraat, a solo due
isolati di distanza dai preparativi per l’asta in casa di Rembrandt, un
mercante di ventitré anni (nato solo pochi giorni prima di Vermeer,
che avrebbe in seguito molto ammirato, ma mai incontrato) si
appresta a chiudere il suo negozio di merci locali e d’importazione.
Ha un aspetto troppo distinto e raffinato per essere un negoziante. I
lineamenti sono perfetti, la pelle olivastra è priva di imperfezioni, gli
occhi sono grandi, scuri e profondi.
Dà un’ultima occhiata in giro: molti scaffali sono vuoti come le
sue tasche. I pirati hanno intercettato il suo ultimo carico da Bahia,
perciò non c’è caffè, non c’è zucchero, non c’è cacao. Per una
generazione la famiglia Spinoza ha gestito un prospero commercio
all’ingrosso di merci locali e d’importazione, ma adesso i fratelli
Spinoza -Gabriel e Bento – si sono ridotti a gestire un negozietto al
dettaglio. Inspirando l’aria polverosa, Bento Spinoza identifica
rassegnato l’odore di fetide feci di ratto che s’accompagna all’aroma
di fichi secchi, uva passa, zenzero candito, mandorle, ceci, e alle
esalazioni di un acre vino di Spagna. Esce dal negozio e dà inizio alla
lotta quotidiana con il lucchetto arrugginito della porta. Una voce
sconosciuta, in un portoghese ampolloso, lo fa sobbalzare.
«Lei è Bento Spinoza?» Spinoza si volta e si trova davanti due
stranieri, due giovanotti dall’aria stanca che sembrano aver percorso
un lungo cammino. Uno è alto, con la testa massiccia che pende in
avanti come se fosse troppo pesante da tenere eretta. Gli abiti sono
di buona qualità, ma sporchi e spiegazzati. L’altro, vestito con
cenciosi indumenti da contadino, sta un passo dietro il compagno.
Ha i capelli lunghi, arruffati, gli occhi scuri, naso e mento marcati. Se
ne sta lì tutto rigido. Solo gli occhi si muovono, guizzando come
girini spaventati.
Spinoza annuìsce guardingo.
«Sono Jacob Mendoza» dice il più alto dei due, «siamo qui per lei.
Dobbiamo parlarle. Questo è mio cugino, Franco Benitez, che ho
appena portato con me dal Portogallo. Mio cugino» Jacob stringe la
spalla di Franco «sta attraversando una crisi».
«Capisco» risponde Spinoza. «Quindi?»
«Una crisi seria».
«Capisco. E perché cercate me?»
«Ci è stato detto che lei è la persona che ci può aiutare. Forse
l’unica». «Aiutare?»
«Franco ha smarrito la fede. Dubita di tutto. Del rituale religioso.
Della preghiera. Persino della presenza di Dio. È sempre spaventato.
Non dorme. Parla di uccidersi».
«E chi vi ha fuorviato mandandovi qui? Sono solo un mercante
che manda avanti una piccola attività commerciale. E non molto
redditizia, come potete vedere». Spinoza indica la vetrina polverosa
attraverso la quale si possono scorgere gli scaffali semivuoti. «Il
rabbino Mortera è il nostro capo spirituale. Dovete andare da lui».
«Siamo arrivati ieri e stamattina ci stavamo accingendo a fare
proprio questo. Ma il nostro padrone di casa, un lontano cugino, ce
l’ha sconsigliato. “Franco ha bisogno di qualcuno che lo aiuti, non di
un giudice” ha detto. Ci ha raccontato che il rabbino Mortera è
severo con chi dubita, e crede che tutti gli ebrei portoghesi che si
sono convertiti al cristianesimo debbano affrontare la dannazione
eterna, anche se sono stati costretti a scegliere tra la conversione e la
morte. “Il rabbino Mortera” ha detto “farà solo sentire Franco ancora
peggio. Andate a trovare Bento Spinoza. È un saggio in queste
questioni”».
«Che chiacchiere sono queste? Io non sono che un mercante…»
«Mio cugino afferma che, se non fosse stato costretto a dedicarsi
agli affari a causa della morte del fratello maggiore e di suo padre,
lei sarebbe stato il prossimo grande rabbino di Amsterdam».
«Devo andare. Mi aspettano a una riunione».
«Sta andando al servizio in vista del sabato alla sinagoga? Sì?
Anche noi. Ci sto portando Franco, perché deve ritrovare la sua fede.
Possiamo venire con lei?»
«No, sto andando a un altro tipo di riunione».
«Come sarebbe un altro tipo?» esclama Jacob, ma si ricompone
immediatamente. «Scusi, non è affar mio. Ci possiamo incontrare
domani? Sarebbe disposto ad aiutarci in un giorno di sabato? È
permesso, trattandosi di una mitzwah. Abbiamo bisogno di lei. Mio
cugino è in pericolo».
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