Il padiglione d’oro – Mishima Yukio

SINTESI DEL LIBRO:
Mio padre mi aveva parlato spesso del Padiglione d'oro, fin da quand'ero
bambino. Sono nato su uno sperduto promontorio che s'avanza nel mar del
Giappone a nord-est di Maizuru. Mio padre era nato invece a Shiraku, più ad
oriente; poi, la vocazione lo aveva fatto abate e l'aveva portato a vivere in
romitaggio, su quel promontorio; là si era ammogliato e aveva procreato me.
A capo Nariu e nei dintorni scuole medie non ce n'erano, e così a una certa
età dovetti staccarmi dal focolare paterno. Fui affidato ad uno zio e frequentai
la scuola di Maizuru-est: la scuola era un po' fuori del paese, e ogni giorno
per arrivarci dovevo fare un bel pezzo di strada a piedi.
Il paese di mio padre era pieno di luce e di sole, ma fra novembre e
dicembre non mancavano ripetuti scrosci di pioggia e spesso senza che
neppure una nuvola li lasciasse prevedere; mi domando ora se la mia
volubilità non abbia avuto la sua prima causa proprio in quel clima.
Nelle giornate limpide di maggio, quando, dopo scuola, mi ritiravo nella
cameretta assegnatami dallo zio, scrutavo le colline lontane: le foglie tenere
che riverberavano i raggi del tramonto sembravano tessere un tenue sipario
dorato proprio nel mezzo della pianura che si stendeva dinanzi a me: e quello
spettacolo accendeva nella mia mente l'immagine del Padiglione d'oro. Era
un'immagine conforme, più che alle fotografie e alle varie illustrazioni a me
note, alle descrizioni che mio padre m'aveva fatto tante volte del Padiglione.
Egli non mi parlava mai del fatto che la costruzione fosse tutta rilucente
d'oro. Mi magnificava invece la sua bellezza, che diceva unica al mondo; e
persino i caratteri con cui era scritto il suo nome e il loro stesso suono
avevano contribuito a scolpire nella mia mente un'immagine ineguagliabile di
stupenda grandiosità. Quando ammiravo la distesa dei campi splendenti di
sole, mi pareva che fossero un'ombra dorata del lontano, invisibile
Padiglione. Il passo Yoshizaka, che segna il confine tra la prefettura di Fukui
e quella di Kyoto, in cui vivevo, s'elevava appunto ad est, e alle sue spalle
sorgeva il sole. La città di Kyoto era invece dall'altra parte, eppure io vedevo
il Padiglione d'oro sorgere nell'aria del mattino fra i raggi del primo sole che
indoravano le colline. E infatti il Padiglione mi appariva dappertutto, anche
se in realtà non l'avevo mai visto; lo stesso m'era accaduto per il mare. La
baia di Maizuru, infatti, era lontana circa sei chilometri dal villaggio di
Shiraku, nascosta dietro una catena di colline, ma c'era in tutta la zona come
un costante presagio del mare; il vento portava l'odore del salmastro e, in
tempo di burrasca, giungevano stormi di gabbiani, a cercar rifugio nei campi.
Ero un ragazzo dal fisico debole, e vano sarebbe stato per me cimentarmi
in giochi di destrezza e di forza. Oltretutto ero afflitto da una balbuzie
congenita. Così finii per rinchiudermi sempre più in me stesso. Tutti
sapevano che ero figlio di un abate, e i compagni più perfidi mi
sbeffeggiavano imitando la parlata saltellante e incespicante d'un prete
oppure ripetendo con maligna intenzione quella storiella del poliziotto che
balbetta. Quel mio difetto - inutile dirlo - costituì sempre una vera barriera tra
me ed il resto del mondo. Mi riusciva soprattutto difficile pronunciare l'inizio
delle parole: l'inizio, ogni inizio, costituiva la chiave del mondo esterno, una
chiave che non ho mai potuto manovrare a dovere. Le persone normali, in
grado di parlare con sicurezza e disinvoltura, possono mantenere spalancata
la porta tra il proprio mondo e l'esterno, ed aria e luce vi passano
ininterrottamente, ma per me era impossibile, come se uno spesso strato di
ruggine ricoprisse quella chiave. Il balbuziente che tenta e ritenta
disperatamente di pronunciare la parola iniziale, è simile ad un pulcino
incapace di districarsi dal suo guscio; e quando vi riesce è ormai tardi.
Talvolta, è vero, pareva che la realtà esterna attendesse, calma ed immobile,
l'esito dei miei sforzi; ma quando la raggiungevo, quando, a furia
d'annaspare, finalmente entravo in contatto.
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