Il matrimonio di piacere – Tahar Ben Jelloun

SINTESI DEL LIBRO:

C’era una volta nella città di Fès un narratore di storie che non assomigliava a
nessun altro. Si chiamava Goha, aveva la pelle molto scura, un corpo asciutto e
spigoloso, lo sguardo penetrante e di grande rigore. Arrivava dal Sud dopo le
grandi piogge, di solito all’inizio della primavera, si metteva in una piazza,
all’entrata della città vecchia, certe volte nei pressi del Palazzo Dar Batha,
altre volte vicino alla Porta Bab Boujloud, posava le sue cose per terra e
aspettava che gli si formasse un circolo intorno. Di grande cultura, sia araba
che berbera, dotato di un’immaginazione straordinaria, noto per la severità del
suo giudizio, e anche per la rigidità delle sue posizioni, aveva accoliti e
detrattori, che aspettavano per tutto l’anno la sua venuta e non si perdevano
neanche uno dei suoi racconti. Si passavano la parola: “È arrivato!” chiudevano
le loro botteghe e andavano ad ascoltarlo. Lui non raccontava soltanto delle
storie. Gli piaceva anche evocare fatti storici che facessero riflettere. Non
affrontava mai i problemi di petto, preferiva aggirarli. Era un maestro – si
diceva – in quest’arte, che consiste nel posare uno sguardo sul presente tenendo
sempre un piede nel passato, spesso meno glorioso di quanto non si dica. Non
nascondeva la sua rabbia circa il modo in cui il Marocco si era fatto sfruttare
dalla Francia all’epoca del protettorato. Ironizzava: “Ecco come ci siamo dati a
Lalla La France, il vecchio paese dei lumi e della razionalità, ormai gonfio per
il suo grottesco appetito. L’Algeria non le bastava più, nemmeno la Tunisia,
doveva avere anche il nostro paese! Povero Marocco! Povera Lalla França!” E
poi all’improvviso, nel mezzo del suo discorso, si fermava, beveva un po’
d’acqua, prendeva una scopa e si metteva a pulire la piazza. Quando se ne
andava, il narratore di storie non prendeva mai le monete raccolte nel suo
recipiente. Preferiva lasciarle ai mendicanti che – diceva – ne avevano più
bisogno di lui. La polizia aveva mandato più volte dei suoi agenti ad ascoltarlo.
Ma non si era mai trovata ragione per accusarlo: si limitava a raccontare storie
e non disturbava l’ordine pubblico. Durante i suoi racconti, impersonava tutti i
ruoli, uno dopo l’altro; certe volte si mascherava, assumeva pose provocatorie...
sapeva tenere sempre desta l’attenzione del pubblico. Era un attore e un poeta
cui piaceva sempre, per spiazzare l’uditorio, iniziare con queste parole:
“Voi che prestate orecchio alle mie storie, ascoltate il consiglio di chi è
cresciuto fra queste dune e ha sempre vissuto sulla cresta delle passioni: Siate
cattivi! Non esitate: siate cattivi! Se mi perdo, richiamatemi all’ordine, la
vostra cattiveria deve restare sempre vigile. E non abbassate mai la guardia,
simpatizzate col Male, questo Male che cresce in noi come una pianta velenosa,
un’alga puzzolente e mortale che nutre la nostra bile e ne fa un veleno diffuso
nei rivoli della nostra vita. Siate cattivi, della vostra indulgenza non so cosa
farmene. Siate cattivi, vivrete più a lungo! Crudeli e cattivi. Spietati e senza
moti dell’animo! Siate cattivi, guadagnerete tempo!”
Il narratore di storie era un saggio. Sapeva che era inutile chiedere alle
persone di essere buone; la bontà non aveva bisogno di stampelle per avanzare.
Una sera in cui si trovava di passaggio a Fès, quando si era già formato intorno
a lui un piccolo crocchio di persone, Goha decise di cambiare registro e iniziò a
raccontare una storia che mai nessuno aveva sentito dalla sua bocca:
Questa volta voglio fare un’eccezione, per una sera voglio raccontarvi
una storia d’amore, un amore folle e impossibile, eppur vissuto da ciascuno
dei suoi protagonisti fino all’ultimo respiro. Come vedrete, dietro questa
storia miracolosa c’è anche molto odio e molto disprezzo, molta cattiveria e
molta crudeltà. Preferisco che lo sappiate, così che non vi stupiate di niente.
C’era dunque una volta nella città di Fès una ragazzino di nome Amir,
nato in una famiglia di commercianti, che si diceva fossero discendenti dalla
stirpe del Profeta.
Era il giorno delle prime piogge, il fratello minore aveva appena
compiuto un anno, quando all’improvviso si diffuse in città la voce che il
Mendicante fosse tornato. Coloro che lo avevano incontrato raccontavano
che la sua voce, grave e forte, fosse spaventosa; che le sue palpebre
tremassero sempre leggermente, nervosamente; che gli bastasse un gesto
della mano per convincere chiunque a mettersi di traverso lungo la sua
strada. E tutti erano d’accordo nel dire che emanava da lui una puzza
insopportabile, che lo precedeva e restava a lungo. Nessuno fino a quel
momento aveva osato avvicinarsi a lui o dargli l’elemosina. Eppure il suo
viso comunicava qualcosa di diverso. Soprattutto i suoi occhi, ampi e chiari,
avevano una strana luce.
Cosa voleva il Mendicante, da dove veniva e qual era il suo nome?
Nessuno poteva dirlo. Ma i bambini lo battezzarono presto El Ghool (il
mostro), El Ghaddar (il traditore) o El Henche (il serpente). Gli adulti invece
lo chiamavano Ould Lehrâme (il bastardo), colui che porta sfortuna.

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