Il cromosoma Calcutta – Amitav Ghosh

SINTESI DEL LIBRO:

Se il sistema non si fosse bloccato, Antar non avrebbe mai intuito che
il brandello di carta plastificata comparso sullo schermo era il residuo
di un ID, una tessera di riconoscimento. Sembrava che fosse stata
estratta da un incendio: il rivestimento di plastica era arricciato e
sciolto ai margini; la scritta praticamente illeggibile e la fotografia
semicancellata da uno sbaffo di fuliggine. Ma chissà come era rimasta
appesa al documento una catenella metallica di circa dieci centimetri:
un cappio arrugginito che usciva da un foro nell'angolo in alto a
sinistra, come una coda moscia. Era stata la catenella a inceppare il
sistema, non la tessera, che saltò fuori durante uno di quegli inventari
di routine che sfrecciavano intorno al globo con metronomica
regolarità, per ragioni che Antar non riusciva a capire, salvo che era
quanto di meglio sapeva fare il sistema. Quando cominciava, andava
avanti per ore, una successione interminabile di documenti e oggetti,
che s'interrompeva solo di fronte a ciò che esulava dai suoi schemi
d'archiviazione: di solito cose assolutamente banali.
Una volta era stato uno di quei fermacarte di vetro dentro i quali si
scatena una bufera di neve se li si capovolge; un'altra volta una
boccetta di correttore, dall'ufficio del sovrintendente ai canali di
irrigazione, poco a sud del lago d'Arai. In entrambi i casi la macchina
era entrata in uno stato di frenesia controllata, sparando un fuoco di
fila di domande.
Antar aveva conosciuto bambini così: perché? cosa? quando? dove?
come? Ma i bambini fanno domande perché sono curiosi; in quei
sistemi AVA/IIe la ragione era un'altra - qualcosa che riusciva a
qualificare solo come urgenza simulata di autoperfezionamento. Erano
già due anni che usava l'ava e continuava a essere sgomento del suo
desiderio di migliorarsi. Se non riconosceva qualcosa, l'isolava sullo
schermo, dedicandosi a microscopiche analisi strutturali, cucendo e
ricucendo immagini, adagiandola su un fianco, evidenziando dettagli
sempre più particolareggiati.
Ava non smetteva finché non le aveva detto tutto ciò che sapeva,
quale che fosse la cosa con cui si stava trastullando sullo schermo.
Aveva cercato di abituarla a usare le enciclopedie di sistema, ma non
bastava. Da qualche parte lungo la rete era stata programmata per
scovare informazioni in tempo reale, e lo faceva con assoluta
determinazione. Dopo aver estorto ad Antar l'ennesimo, insignificante
dettaglio, con vanità curiosamente umana, faceva fare all'oggetto sullo
schermo un'ultima piroetta, prima di lanciarlo nel limbo senza
orizzonti della sua memoria.
Quella volta del fermacarte, gli ci era voluto un lungo minuto per
capire cosa stesse succedendo. Antar stava leggendo: gli avevano
prestato un arnese che gli consentiva di proiettare le pagine di una
rivista o di un libro sulla parete in fondo alla stanza. Se non muoveva
troppo la testa e premeva il tasto giusto con un ritmo regolare, Ava
non poteva accorgersi di non avere tutta la sua attenzione.
Naturalmente quel congegno era illegale, proprio perché era fatto per
gente come lui, che lavorava da solo, a casa.
La prima volta Ava non se n'era accorta, ma poi era successo di
nuovo col correttore: lui stava leggendo, gli occhi fissi sulla parete e
non si era accorto di niente per più di un minuto. A un tratto Ava era
diventata mortalmente quieta, poi sullo schermo avevano cominciato a
lampeggiare avvertimenti. Aveva riposto il libro in fretta e furia, ma
Ava aveva già capito che stava succedendo qualcosa. A fine settimana,
gli era arrivata una comunicazione del suo datore di lavoro,
l'International Water-Resources Council, in cui lo si informava che la
sua paga era stata decurtata a causa di un «calo di produttività», e lo si
avvertiva che un ulteriore calo poteva comportare una riduzione
dell'assegno di pensione.
Dopo quella volta non ci aveva più riprovato. La sera stessa,
uscendo per la quotidiana passeggiata di un'ora a Penn Station, prese
con sé quell'arnese. Lo portò allo squallido caffè di cui era cliente
abituale, giù dalle parti della biglietteria della Long Island RailRoad, e
lo restituì al cassiere sudanese che gliel'aveva prestato. Ormai
mancava solo un anno alla pensione, e se gli abbassavano l'aliquota
non avrebbe fatto in tempo ad alzarla di nuovo. Per anni Antar aveva
sognato di lasciare New York e tornare in Egitto: di andarsene da
quell'appartamento ammuffito dove tutto quello che riusciva a vedere
guardando in strada erano file di finestre sbarrate su facciate di edifici
per la maggior parte vuoti come il suo.
Da allora smise di cercare di ottenere il meglio da Ava. Tornò al suo
lavoro, scrutando pazientemente quegli interminabili inventari,
chiedendosi a che diamine servissero.
Anni prima, quando Antar era un ragazzo, in Egitto, un archeologo
aveva raggiunto il piccolo villaggio in cui viveva con la famiglia - su
una striscia di terra strappata al deserto, sulla sponda occidentale del
delta del Nilo. L'archeologo era una donna, una vecchissima profuga
ungherese con la pelle fragile e fitta di vene come una foglia secca di
eucalipto. Nessuno sapeva il suo nome, così i bambini del villaggio
l'avevano battezzata al-Magari, l'ungherese.
L'ungherese visitò il villaggio parecchie volte nell'arco di alcuni
mesi. I primi tempi l'accompagnava una piccola squadra di assistenti e
operai. Seduta su una sedia di tela ingiallita dal sole, sotto un enorme
cappello, dirigeva gli scavi con una canna dal pomo d'argento. Qualche
volta pagava Antar e i suoi cugini perché dessero una mano, dopo la
scuola, o quando i padri li lasciavano liberi dal lavoro dei campi. Poi i
ragazzini si sedevano in cerchio e l'osservavano mentre frugava sabbia
e terra con spazzole e pinzette, esaminando lo sporco con lenti
d'ingrandimento.
«Cosa fa? - si chiedevano. - Perché fa tutto questo?» Di solito le
domande erano rivolte ad Antar perché era lui quello che a scuola
sapeva sempre rispondere. Il fatto è che Antar non lo sapeva; era
stupito quanto gli altri. Ma aveva una reputazione da difendere, così
un giorno prese fiato e annunciò: «So che cosa fanno: contano la
polvere; sono dei conta-polvere».
«Cosa!?» dissero gli altri increduli. Allora lui spiegò che
l'ungherese contava la polvere come i vecchi contano i grani del
rosario. Gli avevano creduto perché era il ragazzo più intelligente del
villaggio.
Quell'episodio gli tornò in mente all'improvviso un pomeriggio,
un'assolata visione di sabbia e fango e norie cigolanti. Era da un po'
che si sforzava di restare sveglio mentre sullo schermo scorreva un
inventario particolarmente lungo. Veniva da un edificio
amministrativo che era stato messo sotto controllo dall'International
Water Council - qualche sgangherato piccolo Ufficio per lo Sviluppo
Agricolo in Ovamboland o Barotseland. I funzionari incaricati
dell'indagine avevano passato in rassegna tutto il trovabile tramite
Ava, tutti gli innumerevoli relitti della burocrazia del ventesimo secolo
- graffette metalliche, cartelline, dischetti. Evidentemente pensavano
che ogni cosa che trovavano in posti come quello avesse in qualche
modo a che fare con l'esaurimento delle risorse idriche del pianeta.
Antar non aveva mai capito bene il perché del loro accanimento,
ma quella mattina, pensando all'archeologa, d'un tratto capì. Si
vedevano nell'atto di fare la Storia con i loro vasti esperimenti di
controllo delle acque: volevano registrare ogni minuscolo dettaglio di
ciò che avevano e avrebbero fatto. Non volevano uno storico che
passasse al setaccio i loro detriti polverosi, cercandone il significato,
volevano farlo loro: volevano essere loro ad attribuire un significato ai
propri detriti.

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