Il club Dumas – Arturo Pérez-Reverte

SINTESI DEL LIBRO:
Mi chiamo Boris Balkan e in passato ho tradotto La Certosa di
Parma. A parte questo, le critiche e le recensioni che scrivo escono
sui supplementi letterari e sulle riviste di mezza Europa, organizzo
corsi estivi sugli scrittori contemporanei in varie università, e ho
pubblicato alcuni libri sul romanzo popolare dell’Ottocento. Niente
di spettacolare, temo; soprattutto di questi tempi in cui i suicidi si
travestono da omicidi, i romanzi vengono scritti dal medico di Roger
Ackroyd, e troppa gente si impegna a pubblicare duecento pagine
sulle appassionanti esperienze che vive guardandosi allo specchio.
Ma atteniamoci alla storia.
Conobbi Lucas Corso quando venne a trovarmi con Il vino
d’Angiò sotto il braccio. Corso era un mercenario della bibliofilia; un
cacciatore di libri su commissione. È un mestiere che implica le dita
sporche e la parola facile, buoni riflessi, pazienza e molta fortuna. E
anche una memoria prodigiosa, capace di ricordare in quale angolo
polveroso di un negozio di libri usati riposa quell’esemplare per cui
qualcuno è disposto a pagare una fortuna. La sua clientela era scelta
e ristretta: una ventina di librai di Milano, Parigi, Londra, Barcellona
e Losanna, di quelli che vendono solo per catalogo, che investono
senza correre rischi, e che non trattano mai più di una cinquantina di
titoli per volta; aristocratici dell’incunabolo per i quali una
pergamena invece della pelle di vitello, oppure tre centimetri in più
sul margine della pagina, significano migliaia di dollari. Sciacalli di
Gutenberg, piranha dei mercati d’antiquariato, sanguisughe delle
aste pubbliche, sarebbero capaci di vendere la propria madre per
un’edizione principe; ma ricevono i clienti in salotti con divani di
pelle e vista sul Duomo o sul lago di Costanza, e non si sporcano mai
le mani né la coscienza: per quello ci sono i tipi come Corso.
Si tolse dalla spalla una borsa di tela e la posò per terra, accanto
alle scarpe inglesi non troppo lucide, poi osservò a lungo il ritratto di
Rafael Sabatini che tengo in una cornice sulla scrivania dello studio,
accanto alla stilografica che uso per correggere articoli e bozze. La
cosa mi piacque, perché i visitatori di solito vi badano poco; lo
prendono per un vecchio parente. Io spiavo la sua reazione e notai
che accennava un sorriso mentre si sedeva: una smorfia giovanile, da
coniglio in fondo alla strada, di quelle che attirano immediatamente
la benevolenza incondizionata del pubblico in qualsiasi cartone
animato. Col tempo seppi che era capace di sorridere anche come un
lupo magro e crudele, e che poteva assumere l’una o l’altra
espressione a seconda delle circostanze; ma ciò accadde molto tempo
dopo. In quel momento appariva convincente, per cui mi risolsi ad
azzardare un cenno d’intesa.
«Nacque con il dono del riso» citai, indicando il ritratto «e con la
sensazione che il mondo fosse folle...»
Lo vidi annuire lentamente, e provai per lui una simpatia
complice che, nonostante quanto accadde in seguito, conservo
ancora oggi. Aveva estratto da qualche parte, tenendo abilmente
nascosto il pacchetto, una sigaretta senza filtro stropicciata come il
vecchio cappotto e i pantaloni di velluto a coste. Se la rigirava tra le
dita, osservandomi attraverso gli occhiali con la montatura di acciaio
che poggiavano storti sul naso e con i capelli, che iniziavano a
diventare grigi, arruffati sulla fronte. L’altra mano, quasi stesse
impugnando una pistola nascosta, rimaneva in una delle tasche:
cavità insondabili sformate da libri, cataloghi, carte e – anche questo
lo scoprii in seguito – da una fiaschetta piena di gin Bols.
«... E quello fu tutto il suo patrimonio» completò senza difficoltà
la citazione, prima di accomodarsi sulla poltrona e sorridere di
nuovo. «Anche se, a essere sinceri, mi piace di più Capitan Blood.»
Sollevai la stilografica in aria per ammonirlo severamente.
«Fa male. Scaramouche sta a Sabatini come I tre moschettieri
stanno a Dumas.» Feci un rapido gesto di omaggio in direzione del
ritratto. «Nacque con il dono del riso... Nella storia del romanzo
d’appendice di genere avventuroso non c’è un inizio paragonabile a
questo.»
«Forse è vero» concesse dopo un’apparente riflessione, poi mise
il manoscritto sul tavolo, ben protetto nella sua cartelletta con le
buste di plastica, una per pagina. «Ed è una curiosa coincidenza che
abbia menzionato Dumas.»
Spinse la cartelletta verso di me, girandola in modo che potessi
leggerne il contenuto. Tutti i fogli erano scritti in francese su un solo
lato e c’erano due tipi di carta: uno bianco, ormai ingiallito dal
tempo, e un altro azzurro pallido con una quadrettatura fine,
altrettanto invecchiato dagli anni. Ai due colori corrispondevano
grafie diverse, benché quella della carta azzurra – tracciata con
inchiostro nero – comparisse anche sui fogli bianchi sotto forma di
annotazioni posteriori alla stesura originale, la cui grafia era più
piccola e aguzza. In tutto erano quindici fogli, e undici erano azzurri.
«Curioso.» Sollevai lo sguardo su Corso: mi osservava con
occhiate tranquille che andavano dalla cartella a me e da me alla
cartelletta. «Dove l’ha trovato?»
Si grattò un sopracciglio, calcolando senza dubbio fino a che
punto l’informazione che stava per chiedermi lo obbligava a
ricambiare con questo tipo di dettagli. Il risultato fu una terza
smorfia, questa volta da coniglio innocente. Corso era un
professionista.
«In giro. Il cliente di un cliente.»
«Capisco.»
Fece una breve pausa, cauto. Oltre che circospezione e riserbo,
cautela significa astuzia. E questo lo sapevamo entrambi.
«È chiaro che» aggiunse «farò dei nomi, se lei me lo chiede.»
Risposi che non era necessario, e questo sembrò tranquillizzarlo.
Si sistemò gli occhiali con un dito, prima di chiedere la mia opinione
su quanto avevo tra le mani. Non risposi subito, sfogliai le pagine del
manoscritto fino a trovare la prima. L’intestazione era in lettere
maiuscole, con tratti più grossi.
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