Dangerous – Daria Torresan

SINTESI DEL LIBRO:
Tum, tum, tum, tum.
Il mio cuore.
Inarrestabile.
Pulsava aggressivo contro la cassa toracica.
E faceva male per quanto forte la percuoteva.
Faceva male.
Lasciava senza respiro.
Senza speranze.
Senza risposte.
Raggomitolata in un letto dal materasso scomodo, osservavo ciò
che mi circondava senza realmente vederlo. La mente correva
veloce: cosa ci faccio qui? Chi sono loro? Le domande si
accumulavano nella testa senza sosta, senza un ordine. Le gambe
tremavano e per quanto me le portassi al petto non riuscivo a tenerle
ferme. Il respiro affannato mi aveva intontito la mente. Mi sentivo
debole e persa.
Paura.
Avevo paura. Una tremenda, lacerante paura. Pensavo a mio
padre, a quanto si sarebbe dannato nel momento in cui avrebbe
realizzato la mia scomparsa.
Papà.
Pensavo a Rachel e alla disperazione che l’avrebbe colta quando
non mi avrebbe vista tornare da scuola come tutti i giorni. Pensavo a
Shaun a cosa sarebbe stato capace di fare pur di scoprire che fine
avessi fatto. Mi chiedevo quali idee avrebbero potuto formulare le
loro menti impanicate mentre attendevano che la polizia desse loro
la risposta del perché Aylen Myers non si trovava da nessuna parte.
Avrebbero capito subito che non me ne ero andata per mia scelta,
ma perché qualcuno mi aveva presa?
Presa.
Sì, l’avrebbero capito. Mi conoscevano troppo bene per pensare
che ci fosse un solo motivo che mi avrebbe potuta spingere a un
gesto così assurdo. La mia vita era così felice, così perfetta
nonostante i suoi nei, che per nulla al mondo avrei potuto trovare
una motivazione per ribellarmi al mio destino tanto da scegliere un
gesto così forte, così folle, così insensato.
Nessun senso.
Mi avevano lasciata sola ormai da un po’. La benda che mi
copriva gli occhi durante il tragitto mi era stata tolta, ma la corda che
mi stringeva i polsi mi impediva ancora di muovere le braccia. Il
cuore iniziò finalmente a rallentare, ormai esausto aveva ceduto
all’evidenza della realtà: ero appena arrivata e non me ne sarei
andata troppo presto. Provata dalla botta di adrenalina, sentivo le
membra rilassarsi e m’incantai a fissare un angolo ricoperto di muffa
verde, in cui s’incontravano le mura bianco sporco e dove un ragno
panciuto aveva tessuto la sua tela.
Gli occhi spaziarono nuovamente nella stanza. Era ricavata nel
sotterraneo di una vecchia casa, o perlomeno questa era la
sensazione che avevo avuto valutando l’aspetto dei muri, l’odore di
vecchio e l’arredo ormai passato di moda. Non che ci fossero molti
oggetti all’interno. Una lunga tavola in legno circondata da una
decina di sedie era stata spostata in un angolo per far posto a un
letto in ferro, e un piccolo frigo bianco sostava appresso al muro. Da
una porta aperta s’intravedeva un minuscolo bagno che odorava
leggermente di fogna.
Riuscivo a sentire il brusio di voci provenire dalle stanze che
sovrastavano quella in cui ero rinchiusa io. Voci forti, profonde,
maschili. Avevo avvertito la presa decisa sulle braccia mentre mi
portavano qui. Nel furgone parlavano sommessamente, cercavano
di non farmi capire le loro parole, ma anche se me le avessero
gridate nelle orecchie, ero troppo scossa e confusa per
comprenderne il significato.
Ma fra quelle voci ce n’era una che più di tutte mi aveva colpita.
Quella voce sarebbe rimasta impressa nella mia testa, così
indelebile, che nessuna sessione di psicoterapia avrebbe mai potuto
cancellare. Perché colui che la dominava fece ben più che lasciarmi
un ricordo dalle scure sfumature. Lui trovò il modo di segnare nel
mio corpo e nel mio cuore la sua impronta.
Lui marchierà la mia anima.
Per sempre.
2
Tre anni dopo
Lo scampanellio della sveglia si fa strada nelle mie meningi con
prepotenza, ma io sono una dormigliona per natura e sono davvero
brava a esiliarlo lontano dalla realtà, continuando a crogiolarmi nel
letto. La morbidezza del cuscino e il tepore della coperta mi invitano
a rimanere ancora un po’ nel mondo dei sogni, soprattutto quelle
rare volte in cui non si tratta di incubi che mi rilanciano in quei giorni
di prigionia.
«Svegliati dormigliona o faremo tardi a lezione!» Honey, a
differenza mia, è sempre in modalità on: sveglia all’alba, jogging,
studio – il minimo indispensabile – e festa sfrenata nel weekend. Ho
iniziato l’università da poco e la mia compagna di stanza, con la sua
spontaneità e la sua allegria, è già riuscita a divenire parte integrante
della mia attuale vita. Mi piace Honey e mi fido di lei, ma non le ho
raccontato quanto mi è accaduto tre anni fa, quello è un argomento
delicato del quale parlo solo con la mia famiglia e con Shaun, se non
contiamo l’anno passato in analisi dalla dottoressa Johnson.
«Mmm…» brontolo. Sento le calde coperte sollevarsi e il fresco
della stanza raggiungermi la pelle. Honey avvicina il viso al mio
orecchio e sussurra: «Terra chiama Aylen! La lezione di statistica ci
aspetta. Te lo ricordi il professor Turner, con quegli occhioni scuri e
tenebrosi, e quelle labbra carnose così invitanti?»
Statistica è uno dei corsi che io e Honey frequentiamo in comune.
Sorrido alla sua perversione. «Non puoi sedurre il tuo professore,
sciocchina!» la rimprovero con la voce rotta dal sonno.
La sento allontanarsi e immagino il suo sguardo furbo mentre mi
risponde. «Questo è tutto da vedere.»
Mi costringo ad alzarmi e a fatica metto a fuoco la sua immagine
mentre si veste con un paio di jeans e una maglietta semplice con il
simbolo di un noto gruppo musicale. Mi trascino in bagno e, tra una
spazzolata e l’altra dei denti, le chiedo: «Quali programmi hai per il
weekend?»
La sua voce mi raggiunge oltre il rumore dell’acqua che sgorga
nel lavandino. «Indovina? Festa, festa, festa!» risponde esultando.
«Non vai nemmeno questo sabato dai tuoi?» Honey non ha un
buon rapporto con i suoi genitori. Sono a capo di una grossa agenzia
cinematografica e hanno sempre poco tempo per lei. Per loro è
sufficiente che i suoi studi fruttino buoni risultati e che la sua
condotta sia ineccepibile e all’altezza del cognome che porta, tutto il
resto viene costantemente rimandato a un momento più opportuno
che solitamente non arriva mai.
«No, sono in Australia questa settimana. E in ogni caso è di gran
lunga più divertente rimanere qui e aspettare la sera per iniziare i
divertimenti» risponde, facendomi l’occhiolino. È trasparente come
l’acqua ormai per me e riesco a leggere nei suoi occhioni ambrati
quanta poca verità ci sia dietro le sue parole. Non che lei non
apprezzi davvero le feste studentesche, ma soffre per questa
mancanza d’interesse da parte dei suoi genitori, e non c’è serata da
sballo che possa sostituirlo. Devo dire che io, al contrario, mi ritengo
fortunata. Mio padre mi adora e me lo dimostra continuamente.
Mamma è venuta a mancare quando ero piccola, una brutta malattia
l’ha portata via all’affetto dei suoi cari, ma se il destino si è mostrato
crudele con mio padre togliendogli l’amore della sua vita, si è
sdebitato facendogli incontrare una persona speciale. Un avvocato
in carriera e una seconda madre amorevole. Già, perché Rachel non
è di certo la classica matrigna acida e perfida. No, lei è stata una
madre per me, in tutti i sensi. Mi ha amata, protetta e cresciuta come
se fossi figlia sua e, probabilmente, il fatto che non possa averne di
suoi, ha influito sull’affetto che mi ha donato incondizionatamente.
Mio padre, meglio conosciuto come il temibile giudice Myers –
anche se io, in lui, di temibile proprio non ci trovo nulla – nonostante
gli impegni che il suo lavoro comporta, è sempre stato attento e
presente nella mia vita, cercando di adempiere anche al ruolo di
mamma, ma l’aiuto di Rachel è stato fondamentale, come anche la
sua presenza.
«Perché non vieni dai miei insieme a me? Ti presento Shaun,
sono certa che lo troveresti molto più interessante del professor
Turner e molto più adatto alla tua età» suggerisco raggiante.
«Magari un’altra volta, Aylen. Questo sabato c’è una festa in
spiaggia, sono già d’accordo con le ragazze» mi informa,
spolverandosi il viso con un pennello da make up. Negli occhi passa
un ombretto verde e una spessa riga di eyeliner, e conclude l’opera
d’arte con un rossetto di un rosso deciso.
Abbandono l’attenzione su di lei per prepararmi. Mi infilo dentro a
un paio di leggings neri e a una maglia lunga, mi raccolgo i capelli
color miele in una coda alta, e metto nello zaino i testi per le lezioni
di quella mattina e il mio laptop. Nel tragitto che ci conduce all’aula in
cui si tiene la lezione di statistica, incontriamo Tracy, una bellissima
ragazza di colore che appartiene alla cerchia delle amicizie di
Honey, e ora anche alla mia.
«Giorno ragazze!» ci saluta mentre ci viene incontro. «Honey sei
caduta nel trucco stamattina?» le chiede quando il suo sguardo si
posa sul volto della mia coinquilina.
Honey è una ragazza di rara bellezza che non ha di certo bisogno
di impiastricciarsi il volto per catturare l’interesse di un ragazzo, ma il
suo obiettivo stamane è più ambizioso del solito e sembra davvero
determinata.
«Ti rendi conto di chi sta al di là di quella porta?» chiede a Tracy,
indicando l’ingresso dell’aula di statistica.
Tracy capisce all’istante a chi si riferisce. «Honey!» esclama,
alzando gli occhi al cielo. «Sei davvero incredibile! Quell’uomo è
sposato e ha dei figli. Non solo non ti vede nemmeno con il binocolo,
ma credi che metterebbe a rischio la sua famiglia e la sua carriera
per venire a letto con una studentessa?» le fa notare.
Honey solleva le spalle mantenendo un’espressione determinata.
«Mica una studentessa qualunque! Per me vale la pena di
rischiare!» dichiara convinta.
Avevo detto che è anche incredibilmente piena di sé?
Tracy scuote il capo con un mezzo sorriso. «La tua vanità non ha
confini, Honey Sullivan!»
Entriamo nell’aula, arrese al fatto che Honey si metterà in mostra
anche oggi davanti al suo professore prediletto e sperando che non
si becchi un richiamo dallo stesso.
***
Alcune ore più tardi, dopo un panino e un caffè, lascio le mie
amiche alle loro lezioni e mi rilasso all’ombra di una vecchia quercia
del campus, perdendomi tra le pagine di un buon libro. La cosa più
rilassante e rinvigorente che ci sia. Almeno fino a quando qualcuno
non viene a disturbare il mio momento di tranquillità. Due grandi
piedi, decisamente maschili, entrano nella mia traiettoria visiva. Due
sneakers bianche segnate dall’uso. Quando alzo la testa dal libro
incontro dei dolcissimi occhi castani che mi fissano curiosi e non del
tutto amichevoli.
«Credo tu abbia sbagliato posto» mi informa il ragazzo con tono
piatto.
Sbagliato posto? Lo scruto con tanto di sopracciglia alzate.
«Prego?» chiedo senza comprendere.
Indica il luogo in cui siedo. «Questo è mio. È il mio posto.» La sua
voce rimane atona.
«Oh…» commento quando comprendo a cosa allude. «Non vedo
alcuna targa a indicare la tua appartenenza» affermo senza
scompormi e rimanendo seduta.
Lui continua a osservarmi con sguardo solenne. Poi infila la mano
in tasca, ne estrae un coltellino a scatto e incide una J sul fusto.
«Ora c’è» afferma mentre richiude il coltello e lo ripone nella tasca.
«Ti alzi adesso?»
Lo osservo con la bocca spalancata. Lui è visibilmente impaziente
che mi levi di torno. I miei occhi passano dal suo viso alla tasca dove
ha riposto l’oggetto tagliente. «Ma tu giri con quel coso?» domando,
indicando la tasca con l’indice.
«Non si sa mai chi puoi incontrare? Gira brutta gente al campus»
spiega, fissandomi con un sopracciglio alzato, alludendo
volutamente alla mia persona.
Scuoto la testa incredula. «Tu non stai bene!» Ma le mie labbra mi
tradiscono e mi scappa un sorriso. «Facciamo così, ti concedo metà
posto» propongo, dando alcuni colpetti con la mano sul terreno
erboso.
Lui sembra riflettere sulla mia proposta. Poi, senza commentare,
si siede accanto a me, e mi sorprende togliendosi un auricolare per
infilarlo nel mio orecchio. Riaccende la musica nell’Ipod e la voce di
James Hetfield mi penetra nella testa. Prende un testo dalla sua
borsa e lo apre sulle sue ginocchia.
«Ma studi con questo baccano?» Mi è impossibile immaginare di
rilassarsi con questa confusione nelle orecchie.
Mi lancia un’occhiata veloce. «Zitta e leggi. O ti faccio sloggiare.»
Lo osservo iniziare la lettura, divertita dalla sua intimazione, ma
passano pochi istanti e i suoi occhi tornano su di me accompagnati
da un sorriso genuino. Mi allunga la mano. «Jonas» si presenta.
«Aylen» rispondo, afferrando la sua mano e ricambiando il suo
sorriso. Riporta l’attenzione al suo libro, incrocia le gambe e rilassa
la schiena contro il tronco. Esalo un lungo respiro e lo imito
ritornando al mio romanzo. Diversi minuti più tardi, cullata dal calore
del sole e dall’aria tiepida, sento le palpebre appesantirsi e,
nonostante la chiassosa musica che mi tortura i timpani, crollo in un
sonno profondo.
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