Cerulean sins – Laurell K. Hamilton

SINTESI DEL LIBRO:
Era l’inizio di settembre, un periodo in cui ci sono sempre
parecchi morti da resuscitare. Sembra che la corsa prima di
Halloween cominci con anticipo sempre maggiore di anno in anno.
Tutti i risveglianti dell’Animators Inc. avevano l’agenda piena, e io
non facevo eccezione, anzi, mi era stato offerto più lavoro di quanto
potessi svolgerne, nonostante la mia capacità di rinunciare al sonno.
Mr Leo Harlan avrebbe dovuto essermi grato per avere ottenuto
un appuntamento, e invece, a giudicare dal suo aspetto, non
sembrava affatto che lo fosse. A dire la verità, il suo aspetto non
diceva niente. Era un tipo normale, di altezza media, non troppo
pallido e non troppo abbronzato, coi capelli scuri, però non troppo, e
con gli occhi di un castano neutro. La sua unica caratteristica
notevole era che non aveva niente di notevole. Il suo completo scuro
da uomo d’affari, elegante ma anonimo, andava di moda da almeno
vent’anni e probabilmente sarebbe rimasto in voga per un altro
ventennio. La camicia era bianca, la cravatta era perfettamente
annodata, le mani, non troppo grandi e non troppo piccole, erano
pulite, sebbene prive di manicure. In breve, il suo aspetto mi rivelava
così poco da risultare interessante in se stesso, nonché vagamente
inquietante.
Bevvi un sorso di caffè dalla tazza con la scritta: SE MI PROPINI
DEL DECAFFEINATO, TI STACCO LA TESTA. L’avevo portata in
ufficio quando il nostro capo, Bert, aveva caricato la caffettiera col
decaffeinato senza dire niente a nessuno, pensando che non ce ne
saremmo accorti. Per una settimana metà dei colleghi aveva creduto
di avere la mononucleosi, finché non avevamo scoperto il sordido
inganno di Bert.
La tazza col caffè servito a Mr Harlan da Mary, la nostra
segretaria, era posata sul bordo della mia scrivania e aveva il logo
dell’Animators Inc. Harlan aveva chiesto caffè nero. Quando Mary
glielo aveva portato, lui lo aveva sorseggiato per un minuto, ma come
se non ne gustasse il sapore, o come se non gliene fregasse niente del
sapore. Lo aveva accettato soltanto per cortesia, non per gradimento.
Continuai a sorseggiare il mio caffè, abbondantemente dolcificato
con panna e zucchero nel tentativo di mettermi in sesto, perché la
notte prima avevo lavorato fino a tardi. Caffè e zucchero sono i due
componenti essenziali della mia dieta.
Mr Harlan parlava con una voce che era come tutto il resto di lui,
cioè così normale da risultare straordinaria, del tutto priva di
qualsiasi accento regionale o straniero. «Voglio resuscitare un mio
antenato, Ms Blake.»
«È quello che ha detto.»
«Sembra che dubiti di me, Ms Blake.»
«Lo consideri innato scetticismo.»
«Perché mai dovrei mentirle?»
Scrollai le spalle. «Non sarebbe la prima volta che succede.»
«Le assicuro che sto dicendo la verità, Ms Blake.»
Il guaio era che non gli credevo affatto. Forse ero paranoica, ma la
manica sinistra della mia bella giacca blu nascondeva un ammasso di
cicatrici, incluse quelle degli artigli di una strega licantropa, quella
dell’ustione a forma di croce – ricordo del servo umano di un
vampiro che mi aveva marchiata a fuoco – e quelle di alcune
pugnalate, nitide e sottili rispetto alle altre. Con una sola cicatrice,
quella di una pugnalata, il braccio destro era illeso, in confronto. La
gonna e la camicetta blu nascondevano altre cicatrici. La seta
scivolava ovunque con la stessa morbidezza, che la pelle fosse
cicatrizzata o indenne. Mi ero guadagnata il diritto di essere
paranoica. «Quali antenati desidera resuscitare, e perché?»
domandai, sorridendo cordialmente, ma non con gli occhi. Stavo
cominciando ad avere qualche difficoltà a sorridere anche con gli
occhi.
Harlan sorrise a sua volta allo stesso modo, cioè non con gli occhi,
nel modo in cui si sorride per cortesia, non perché il sorriso significhi
davvero qualcosa. Quando si allungò a prendere di nuovo la tazza del
caffè, notai che la tasca anteriore sinistra della sua giacca conteneva
qualcosa di pesante. Non indossava una fondina ascellare, altrimenti
me ne sarei accorta, però aveva in tasca qualcosa di più pesante di un
portafoglio.
Avrebbe potuto essere molte cose, eppure il mio primo pensiero
fu arma da fuoco. Be’, ho imparato ad ascoltare i miei primi pensieri.
Non si diventa paranoici se non ci si trova davvero in pericolo.
La mia pistola era nella fondina ascellare sotto il braccio sinistro.
Anche se eravamo pari, non volevo trasformare l’ufficio in una sorta
di OK Corral. Forse Harlan era armato, anzi, molto probabilmente lo
era. Per quello che ne sapevo, in quella tasca avrebbe anche potuto
esserci un portasigari, eppure sarei stata pronta a scommettere
qualsiasi cosa, o quasi, che si trattava di un’arma. Dunque avevo
un’alternativa: stare seduta a cercare di convincermi che il mio
intuito sbagliava, oppure agire come se avesse ragione. Se avessi
sbagliato, avrei sempre avuto la possibilità di scusarmi. Se invece
avessi visto giusto… be’, sarei sopravvissuta. Meglio viva e scorbutica,
che morta e gentile.
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