Gli angeli di lucifero – Fabrizio Carcano

SINTESI DEL LIBRO:

 Milano, 7 giugno 2009
«Per gli inquirenti resta da chiarire se la profanazione della cappella funeraria
della famiglia Acerbi possa essere opera di un gruppo di teppisti o di balordi,
in cerca di macabre emozioni, o se, invece, sia da attribuire a personaggi
gravitanti intorno ad ambienti esoterici.»
Sistemò meglio l’auricolare. Poi riprese a dettare.
«La mancanza di telecamere nell’area centrale del cimitero di Chiaravalle,
dove sono situate le cappelle più vecchie, tra cui quella danneggiata,
complicherà ulteriormente le indagini.»
Un’altra pausa.
«Chissà se di questo particolare poteva esserne a conoscenza anche chi ha
deciso di turbare l’eterno riposo del Diavolo di Porta Romana... Quanto ho
scritto?»
«3340 battute. Quasi 55 righe.»
«Bene. Direi che può bastare. Non saprei davvero cosa aggiungere.»
«Basta così, allora?»
«Sì, basta così. Se poi mi venisse in mente altro, vi richiamo. Bacio.»
Malerba congedò Cristina, la dimafonista, tra l’altro piuttosto carina, cui
aveva appena finito di dettare l’articolo.
Sfilò l’auricolare, avvertendo un lieve dolore all’orecchio sinistro. Si mise
a frugare sotto il sedile in cerca di una bottiglietta d’acqua. Faceva davvero
caldo.
La città era stretta in una morsa asfissiante: l’estate era già esplosa, con
qualche giorno di anticipo.
E l’estate, a Milano, significa afa e umidità quasi insopportabili.
Aveva parcheggiato la macchina all’ombra di alcuni filari che delimitavano
il parcheggio esterno del cimitero di Chiaravalle, appena fuori Milano, nella
periferia sud ovest.
Campi, qualche roggia maleodorante per via degli scarichi industriali,
sparuti boschetti e una manciata di vecchie cascine.
Una zona di campagna, con stradine poco battute, tranne il sabato e la
domenica, quando la gente andava a far visita ai propri defunti in questo
cimitero – storico e piuttosto ampio – salvo poi fermarsi a bere qualcosa nel
chiosco situato davanti all’omonima abbazia cistercense.
E, infatti, in quella calda domenica di giugno, Chiaravalle brulicava di
insolita vita.
Famiglie a passeggio dirette verso l’abbazia, gruppi di giovani accampati
nei prati a prendere il sole, sportivi che transitavano in bici. Ancora un paio
d’ore e se ne sarebbero andati tutti.
Lasciando il cimitero e l’abbazia nel silenzio e nella solitudine abituali.
Tranne la domenica non c’era molto passaggio da quelle parti, non c’era
traffico, non c’era anima viva.
Condizioni ideali per mettere a segno una bravata come quella della notte
precedente.
L’apertura della vecchia porta di ferro della cappella mortuaria della
famiglia Acerbi, una delle famiglie storiche di Milano, e la distruzione della
lapide che ospitava i resti, probabilmente solo polvere, del marchese
Ludovico Acerbi.
Un personaggio piuttosto curioso e bizzarro, un nobile dai lineamenti
severi, che se ne andava in giro vestito sempre di nero, a bordo di una
carrozza trainata da sei cavalli, anch’essi rigorosamente neri, circondata da
numerosi paggi, vestiti sempre di velluto verde!
Di anni cinquanta in circha con barba quadra et longa, né magro né
grasso, né bianco né nero. Comparisce ogni giorno in carrozza superbissimo
con sedici staffieri giovani, sbarbati, vestiti di livrea verde dorata et con
assai copia di gioie e sei cavalli tirano la sua carrozza.
Così lo descriveva un anonimo cronista milanese del Seicento, uno di
quelli che se l’era trovato di fronte, di notte, spaventandosi.
Chiaro che uno così non potesse che far morire di paura l’ignorante e
superstizioso popolino che, nel buio notturno, si vedeva spuntare nelle male
illuminate vie milanesi un simile corteo.
Un eccentrico e inquietante personaggio che, grazie a queste sue manie, si
era guadagnato la fama di essere niente meno che il Diavolo in persona,
tornato dall’inferno per calcare le strade cupe della Milano seicentesca, della
Milano della paura, della Milano dilaniata dalla peste raccontata dal
Ripamonti e poi romanzata dal Manzoni, una malattia che colpiva tutti, nobili
e poveri, e che, alla fine, si era portata via un milanese su due.
Eppure nessuno degli Acerbi aveva contratto il morbo, come non l’aveva
contratto nessuno della sua sterminata servitù e, neppure, nessuno della
cerchia di nobili che frequentavano la sua splendida casa in Porta Romana,
dove quasi ogni sera si tenevano feste sontuose, con musica e balli, mentre la
peste infuriava per la città, contagiando e uccidendo tutti tranne, per
l’appunto, il Diavolo di Porta Romana e chi gli stava intorno.
Era questo che Malerba aveva scritto nel suo articolo, copiando, senza
controllare, tutto quello che sul marchese Acerbi aveva trovato su Google.
Abbastanza per mettere insieme una cinquantina di righe di colore,
raccontando una banale storia di cronaca nera, un semplice atto teppistico
senza danni veri, condendola con il mistero e l’inquietudine che circondavano
il personaggio al centro di questa vicenda.
Ne era venuto fuori un buon articolo e Malerba era decisamente
soddisfatto.
Tutto sommato quella che sembrava una «bufala» si era rivelata una buona
occasione per scrivere qualcosa di nuovo e interrompere la monotonia
professionale di quell’afosa domenica e in generale degli ultimi mesi.
Pochi omicidi, quasi tutti tra extracomunitari implicati in giri malavitosi, e
nessun vero giallo che interessasse i suoi lettori, se non l’ormai trito e ritrito
omicidio di Garlasco, con i soliti personaggi e un processo a senso unico.
Prima di risalire in macchina e andarsene, il cronista lanciò un’ultima
occhiata alla volante dei Carabinieri della vicina stazione di Poasco.
Si erano sistemati all’ombra: erano tranquilli e parlottavano con uno dei
custodi del cimitero.
In giro non si vedevano altri giornalisti: probabilmente nessuno era
interessato a questa profanazione e poi, in fin dei conti, non era successo
nulla di rilevante.

SCARICA IL LIBRO NEI VARI FORMATI :

Commento all'articolo

Potresti aver perso questo