L’autunno dentro –  Vera Demes  

SINTESI DEL LIBRO:

Uscendo per strada, fu investita da un vento insolitamente freddo.
Ne rimase stupita benché ormai da ore la tramontana stesse
sollevando polvere e foglie secche in mulinelli sottili facendo
tremolare la luce dei lampioni e i fanali delle automobili incolonnate
al semaforo. Suo padre la raggiunse sulla porta tendendole una
sciarpa. Aveva ancora il camice addosso e l’aria stanca che gli
increspava la fronte e gli angoli della bocca come accadeva spesso
alla fine della giornata.
Anna sorrise accettando il morbido indumento di lana, intenerita
da quel gesto gentile e apprensivo che rivelava quanto ancora lui la
ritenesse indifesa e bisognosa di cure. L’amore di un genitore non
poteva offuscarsi neppure da adulti, quando l’accudimento infantile
sarebbe potuto apparire superfluo e persino ridicolo. Era un
comportamento naturale e lei lo capiva nonostante quelle attenzioni
la facessero diventare malinconica. Forse un giorno sarebbe stata
madre e avrebbe provato per i propri figli la stessa amorevole cura,
lo stesso tenero e apprensivo trasporto, la medesima sensazione di
possesso. Probabilmente sarebbe stato così. Sarebbe stato giusto e
inevitabile.
Suo padre la salutò con un rapido gesto della mano lasciandosi
avvolgere dal tepore accogliente della farmacia. Doveva ancora
terminare di calcolare gli incassi della giornata e lo avrebbe fatto nel
solito modo preciso e meticolosamente accurato. Poi avrebbe
sistemato sugli scaffali le scatole rimaste sul bancone e avrebbe
riposto i medicinali più costosi negli appositi armadietti assicurandosi
più volte che la serratura fosse chiusa a dovere. Dopo aver dato
un’ultima occhiata ai locali, aver spento le luci e abbassato le
serrande, avrebbe inforcato la bicicletta percorrendo con calma le
strade strette del centro medioevale verso casa, nel silenzio placido
della sera autunnale.
Anna sarebbe arrivata a destinazione prima di lui nonostante fosse
a piedi. Avrebbe attraversato la piazza del Duomo e le strade piene
di vetrine che si allungavano a raggiera verso la periferia e poi
avrebbe superato il semaforo sui viali del parco costeggiando i
giardini delle ville liberty con le finestre illuminate e le siepi ben
potate. In fondo alla strada senza uscita avrebbe occhieggiato la
propria casa, una deliziosa palazzina gialla edificata nei primi anni
del novecento, con le decorazioni floreali sugli architravi delle
finestre, le piante di camelie protette da custodie di plastica e gli
alberi spogli, con le foglie secche raccolte tutte intorno in cumuli
ordinati. Nel fine settimana suo padre le avrebbe sparse con cura sul
prato per agevolarne la decomposizione e produrre un buon humus,
fertile e adatto alla semina primaverile.
Vicino al cancello c’era ancora l’aiuola in cui sua madre aveva
coltivato per anni i fiori autunnali. A ottobre le piante iniziavano a
ripiegare verso il grigiore dell’inverno e, in un ultimo, parossistico,
afflato di vita, le fioriture sembravano succedersi con sorprendente
rapidità fiammeggiando di colori vividi e accesi. E così era possibile
assistere all’esplosione degli astri perenni di un color azzurro,
porpora e viola, allo sbocciare delle dalie fucsia, dei crisantemi gialli
e amaranto, della saponaria vermiglia e della tamerice rosa, delle
zinnie variopinte e della salvia di un rosso vivo e splendente. La
natura sembrava lanciare un ultimo, intenso grido di gioia prima di
arrendersi e cedere il passo alle nebbie e alle giornate piovose e
fredde. Sarebbero bastate poche settimane e il tripudio di colori
accesi e scintillanti si sarebbe spento di colpo lasciando il posto a
rami spogli e colori bruni, bruciati e ormai sopiti.
Anna sospirò. Era vero. La natura stava per rilasciarsi al letargo
invernale ma restavano ancora alcuni giorni. Non tutto era perduto.
C’erano ancora il giallo intenso dei crisantemi e il carminio dei
corbezzoli ma anche l’amaranto dei cachi e l’arancione delle zucche.
Lei ne aveva preparate alcune deponendole sul marciapiedi attorno
alla casa e adornandole di carta crespa con piccoli fantasmi e
minuscole streghe ritagliate e appese tutt’intorno. I bambini del
quartiere facevano festa ammirando le enormi teste gialle e
ghignanti che sembravano prendersi gioco di loro dall’alto di una
fissità senza tempo. Che importava se suo padre aveva protestato
sostenendo che Halloween non faceva parte delle loro tradizioni, che
era uno stupido costume anglosassone, importato dalla televisione e
dalle grandi catene di fast food. A lei piaceva. E piaceva soprattutto
ai bambini del quartiere. Ogni sera un gruppo coraggioso di
ragazzini compariva accanto al cancello occhieggiando le zucche
con espressione implorante e lei, qualunque cosa stesse facendo in
quel momento, accendeva le candele all’interno dei grossi frutti
rugosi scatenando urla di gioia e sorrisi riconoscenti. Quella sera,
tuttavia, non sarebbe stato possibile accendere le zucche poiché il
vento ne avrebbe sicuramente spento le fiammelle. I bambini ne
sarebbero rimasti delusi ma probabilmente, con quel clima, i genitori
non li avrebbero neppure lasciati uscire.
Anna salì a due a due i gradini della scala esterna ed aprì la porta
di ingresso con insolita fretta cercando di proteggersi dalle raffiche di
tramontana che squassavano i rami scarni degli alberi del giardino e
facevano cigolare le vecchie persiane di legno. In casa era tutto buio
e Merlino, il gatto che viveva con loro da otto anni, le si fece incontro
miagolando felice. Anna si chinò ad accarezzarlo e poi, come ogni
sera, fece il giro del primo piano accendendo tutte le luci. In quel
modo le pareva che ci fosse vita e che qualcuno fosse pronto ad
accoglierla.
Poteva immaginare di essere ancora bambina, di ritorno dalle
lezioni pomeridiane di danza o di inglese quando in cucina c’era
sempre una merenda nutriente apparecchiata sul tavolo mentre le
note del pianoforte si spandevano nell’aria con dolce consuetudine.
Sua madre era stata una discreta pianista che, dopo il matrimonio e
la nascita dei figli, si era dedicata alle lezioni private con lo stesso
impegno e trasporto di una concertista. L’infanzia di Anna e di suo
fratello Carlo era stata scandita dal suono del pianoforte nello studio
della loro madre, dal ticchettio del metronomo e dalle brevi e
autorevoli indicazioni che quella donna minuta e instancabile
impartiva ai propri allievi.
Lanciò uno sguardo alla fotografia appoggiata al cassettone antico
in sala da pranzo che ritraeva i suoi genitori il giorno del matrimonio.
Due volti giovani e felici, proiettati verso il futuro.
Se ne era andata troppo in fretta, sua madre. Un giorno di
settembre di dieci anni prima. Le pareva un secolo. E già non
ricordava più la sua voce, come se non fosse mai esistita.
Si sfilò il cappotto e lo appese con cura all’attaccapanni
dell’ingresso poi si lavò le mani nel bagno di servizio in fondo alle
scale e si diresse in cucina. Nel frigorifero era già pronta una
minestra di zucca e per secondo avrebbe tagliato del formaggio. Era
troppo stanca per cucinare e suo padre si accontentava di poco,
come se temesse di arrecarle disturbo. Mise a scaldare la zuppa sul
fornello mordicchiando un grissino. Oltre i vetri della finestra i rami
scarni del tiglio e quelli più robusti del castagno si agitavano in una
danza buffa, scossi dal vento. Un clima bizzarro che forse avrebbe
portato la pioggia.
Il telefono squillava. Chissà da quanto.
Anna si diresse all’apparecchio che era vecchio e malridotto ma
che suo padre si ostinava a non voler cambiare poiché riteneva che
non valesse la pena spendere soldi in congegni elettronici troppo
sofisticati.
«Pronto.»
«Anna?»
Lei sorrise senza riuscire a trattenere un grido di gioia. «Carlo!»
«Come stai?» Suo fratello aveva un tono allegro, come se non si
trovasse a migliaia di chilometri di distanza, in un luogo impervio e
del tutto ostile.
«Io bene e tu?»
«Benissimo.» La voce di suo fratello scomparve per qualche
istante nascosta dal crepitio delle onde radio. «Finalmente mi hanno
confermato la licenza.

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