Le case degli altri –  Jodi Picoult 

SINTESI DEL LIBRO:

Ovunque guardi, vedo segni di lotta. La posta è sparsa dappertutto
sul pavimento della cucina; gli sgabelli sono ribaltati. Il telefono è
stato sbalzato dalla base, la scatola delle pile penzola da un ombelico
di fili metallici. C'è una sola, debole impronta sulla soglia del
soggiorno, puntata verso il corpo senza vita di mio figlio, Jacob.
È adagiato in modo scomposto come una stella marina davanti al
caminetto. Ha le tempie e le mani coperte di sangue. Per un momento,
non riesco a muovermi, non riesco a respirare.
D'improvviso, lui si mette seduto. «Mamma» dice Jacob, «non
provi nemmeno.»
Non è reale, rammento a me stessa, e lo osservo mentre si distende
di nuovo nella stessa posizione: sulla schiena, con le gambe raccolte e
piegate a sinistra.
«Ehm, c'è stata una rissa» azzardo.
La bocca di Jacob si muove appena. «E...?»
«Ti hanno colpito alla testa.» Mi metto in ginocchio, come lui mi
ha detto di fare cento volte, e mi accorgo che il cofanetto di cartone
con dentro tre libri, di solito collocato sulla mensola del camino, ora
sbuca fuori da sotto il divano. Lo raccolgo con circospezione e vedo
sangue su un angolo. Con il mignolo, tocco il liquido e poi lo assaggio.
«Oh, Jacob, non dirmi che hai di nuovo usato tutto lo sciroppo di
mais... »
«Mamma! Concentrati!»
Mi lascio cadere sul divano, tenendo il cofanetto di cartone tra le
mani. « Sono entrati i ladri, e tu li hai messi in fuga. »
Jacob si mette seduto e sospira. Ha i capelli impiastricciati dalla
mistura di colorante alimentare e sciroppo di mais; gli brillano gli
occhi, anche se non incrocia i miei. «Credi davvero che allestirei la
stessa scena del crimine due volte?» Apre il pugno, e per la prima volta
vedo una ciocca di soffici capelli biondi. Il padre di Jacob ha i capelli
color stoppa... o quanto meno li aveva quando se ne andò quindici
anni fa, lasciandomi sola con Jacob e Theo, il suo biondo fratellino
nuovo di zecca.
«Ti ha ucciso Theo? »
«Insomma, mamma, anche all'asilo infantile avrebbero risolto
questo caso» protesta Jacob, balzando in piedi. Il sangue finto gli cola
lungo il volto, ma lui non se ne accorge; quando si concentra
intensamente sull'analisi di una scena del crimine, potrebbe anche
esplodergli accanto una bomba atomica e lui non batterebbe ciglio.
Cammina verso l'impronta sul bordo del tappeto e la indica. Ora, dopo
una seconda occhiata, noto il disegno Waffle delle scarpe da ginnastica
Vans che Theo si è comprato per fare skateboarding dopo aver
risparmiato per mesi, e le ultime due lettere del marchio, NS, stampate
nella suola di gomma. «C'è stato uno scontro in cucina» spiega Jacob.
«Alla fine ho scagliato il telefono per difendermi, ma Theo mi ha
inseguito in soggiorno, dove mi ha tirato un cartone. »
Mio malgrado, mi viene da sorridere. «Dove hai sentito
quell'espressione? »
«CrimeBusters, episodio quarantatre.»
«Bene, allora lo sai. Significa dare un pugno a qualcuno. Non
colpirlo con qualcosa di cartone. »
Jacob mi guarda sbattendo gli occhi, senza espressione. Lui prende
tutto alla lettera: è uno dei sintomi della sua sindrome. Anni fa,
quando stavamo per trasferirci nel Vermont, mi domandò com'era.
Colline ovunque, risposi. È tutto verde. Al che, lui scoppiò a piangere.
Diventeremo verdi anche noi? chiese.
«Ma qual è il movente? » domando, e proprio in quel momento,
Theo scende le scale a precipizio.
«Dov'è il mostro? » urla.
« Theo, non chiamare così tuo fratello... »
«Smetterò di chiamarlo mostro quando lui smetterà di rubare
oggetti dalla mia stanza. » Istintivamente mi sono messa tra lui e
suo fratello, benché Jacob ci superi entrambi in altezza.
«Non ho rubato niente dalla tua stanza» ribatte Jacob.
« Oh, davvero? E le mie scarpe da ginnastica? »
«Erano nell'ingresso» puntualizza Jacob.
«Tardo» borbotta Theo sottovoce, e vedo una scintilla negli occhi
di Jacob.
«Non sono ritardato» ringhia, e fa per scagliarsi contro il fratello.
Tendo un braccio per trattenerlo. «Jacob» dichiaro, «non devi
prendere niente che appartenga a Theo senza chiedergli il permesso. E
Theo, non voglio più sentirti pronunciare quella parola, altrimenti
prendo le tue scarpe da ginnastica e le butto nella spazzatura. Sono
stata chiara?»
«Ne ho abbastanza» brontola Theo, e si avvia con passo pesante
verso l'ingresso. Un momento dopo sento sbattere la porta.
Seguo Jacob in cucina e lo guardo mentre si mette in un angolo. «Il
guaio, qui» mormora lui, con voce improvvisamente strascicata, «è...
un fallimento della comunicazione » Si accoccola a terra, stringendosi
le ginocchia al petto.
Quando non riesce a trovare le parole per esprimere quello che
sente, prende quelle di qualcun altro. Queste sono una citazione da
NickMano Fredda. Jacob ricorda i dialoghi di ogni singolo film che ha
visto.
Ho conosciuto molti genitori di ragazzi che si collocano nel punto
più basso dello spettro autistico, ragazzi diametralmente opposti a
Jacob e alla sua forma di Asperger. Dicono che sono fortunata ad avere
un figlio tanto loquace, dotato di un'intelligenza così acuta, capace di
smontare il forno a microonde rotto e di rimetterlo in funzione nel giro
di un'ora. Pensano che non ci sia disgrazia peggiore dell'avere un figlio
chiuso nel suo mondo, ignaro che ne esista un altro più vasto da
esplorare. Ma provate ad avere un figlio chiuso nel suo mondo che
tuttavia vuole stabilire un contatto. Un figlio che prova a essere come
tutti gli altri, ma in realtà non sa come fare.
Allungo una mano per consolarlo, ma poi mi trattengo: anche un
contatto lieve rischia di scombussolarlo. Non gli piacciono né le strette
di mano né le pacche sulle spalle e nemmeno una carezza sui
capelli. «Jacob» comincio, ma poi mi rendo conto che lui non è
affatto di malumore. È chino sul ricevitore del telefono che tiene in
mano, e mi accorgo della macchia nera su un lato. «Ti sei persa anche
un'impronta digitale» esclama Jacob allegramente. «Senza offesa,
saresti un pessimo detective. » Strappa un pezzo dal rotolo di carta da
cucina, lo inumidisce nel lavello. «Non preoccuparti, laverò via tutto il
sangue. »
«Non mi hai ancora detto che motivo aveva Theo per ucciderti. »
«Oh. » Jacob lancia un'occhiata dietro di sé, un ghigno malvagio gli si
dipinge sul volto. «Gli ho rubato le scarpe da ginnastica.»
Nella mia mente, l'Asperger è un'etichetta che descrive non i tratti
che Jacob ha, bensì quelli che ha perduto. Aveva solo due anni quando
iniziò a disimparare le parole che conosceva, a sfuggire lo sguardo
altrui, a evitare il contatto con le persone. Non ci udiva, oppure non
voleva udirci. Un giorno lo guardai, mentre era disteso sul pavimento
accanto a un autocarro giocattolo. Faceva girare le ruote, con il volto a
pochi centimetri di distanza, e io pensai: Dove te ne sei andato?
Ho trovato delle giustificazioni per il suo comportamento: se si
rannicchiava nel carrello ogni volta che andavamo a far la spesa, era
perché al supermercato faceva freddo. Le etichette che avevo dovuto
tagliar via dai suoi vestiti erano particolarmente ruvide. Alla scuola
materna, quando sembrava che non riuscisse a instaurare rapporti con
gli altri bambini, organizzai una festa di compleanno senza regole per
lui, completa di palloncini riempiti d'acqua e mosca cieca. Era passata
solo mezz'ora quando mi accorsi d'improvviso che Jacob non c'era.
Ero incinta di sei mesi e divenni isterica: gli altri genitori iniziarono a
cercare in cortile, per strada, in tutta la casa. Fui io a trovarlo, seduto
in cantina, che inseriva e toglieva in continuazione una cassetta da un
videoregistratore.
Quando mi comunicarono la diagnosi, scoppiai a piangere. Va
detto che era il 1995; la mia unica esperienza di autismo risaliva a
Dustin Hoffman in Rain Man. Secondo il primo psichiatra che
vedemmo, Jacob era disabile nella comunicazione e nel
comportamento sociale, ma non soffriva di quel deficit del linguaggio
che è il contrassegno di altre forme di autismo. Soltanto anni dopo
udimmo per la prima volta la parola Asperger: semplicemente non
rientrava ancora nello spettro diagnostico di nessuno. Ma a
quell'epoca, avevo già avuto Theo, e Henry, il mio ex, se n'era andato.
Faceva il programmatore informatico e, poiché lavorava in casa, non
sopportava i capricci improvvisi di Jacob quando anche la minima
inezia lo lasciava sconvolto: una luce violenta in bagno, il rumore di un
furgone della UPS che procedeva sulla ghiaia del vialetto, la
consistenza dei cereali per la colazione. A quell'epoca, mi ero votata
completamente ai primi terapeuti occupazionali di Jacob: una sfilata
di gente che veniva a casa nostra a tentare di trascinarlo fuori dal suo
piccolo mondo. Rivoglio la mia casa, mi disse Henry. Rivoglio te.
Ma io mi ero già accorta che, con la terapia comportamentale e la
logopedia, Jacob aveva ricominciato a comunicare. Il miglioramento
era evidente. Di conseguenza, la scelta era obbligata.
La sera in cui Henry se ne andò, Jacob e io eravamo seduti al tavolo
della cucina a giocare. Io facevo una faccia, e lui cercava di indovinare
a quale sentimento corrispondesse. Sorrisi, benché stessi piangendo, e
aspettai che Jacob mi dicesse che ero felice.
Henry vive con la sua nuova famiglia nella Silicon Valley. Lavora
per la Apple e parla di rado con i ragazzi, sebbene mandi
puntualmente un assegno tutti i mesi per il loro sostentamento. Del
resto, Henry è sempre stato bravo nell'organizzazione. E nei numeri.
La sua capacità di memorizzare un articolo del New York Times e di
citarlo parola per parola, che sembrava così intellettualmente sexy
quando uscivamo insieme, non era poi tanto diversa dalla prontezza di
Jacob nell'imparare a memoria l'intera programmazione televisiva
quando aveva sei anni. Henry se n'era andato ormai da tempo, quando
diagnosticai anche a lui un accenno di Asperger.
L'appartenenza della sindrome di Asperger allo spettro autistico è
ancora molto discussa, ma a essere sinceri, non ha importanza. È un
termine che usiamo per procurare a Jacob le agevolazioni di cui ha
bisogno a scuola, non un'etichetta per spiegare chi è. Se lo incontraste
ora, la prima cosa che notereste è che forse si è dimenticato di
cambiarsi la camicia da ieri o di spazzolarsi i capelli. Se gli parlate,
dovrete essere voi ad avviare la conversazione. Lui non vi guarderà
negli occhi. E se fate una pausa per parlare brevemente con qualcun
altro, voltandovi magari scoprirete che Jacob è uscito dalla stanza.
Il sabato, Jacob e io andiamo a fare la spesa.

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