Lampi sulla storia. Intrecci tra passato e presente – Paolo Mieli

SINTESI DEL LIBRO:
Ridisegnare eventi o figure del passato con gli strumenti del
presente può dare luogo a scontri e frizioni. È quello che è successo
in Francia nel 2013, quando si pensò di ricostruire la testa di
Robespierre come era davvero. Ma quando il lavoro fu ultimato,
all’autore della «maschera» fu mosso il rimprovero di aver raffigurato
l’«incorruttibile» con «uno sguardo arcigno», una «carnagione
butterata» e un «cranio eccessivamente grande». Con l’intenzione
appena dissimulata, secondo gli accusatori, di «disprezzare la
Rivoluzione», non solo quella del 1789, «ma anche tutte le altre,
trascorse e a venire». Un «episodio ai limiti del grottesco» lo
definisce Jean-Clément Martin in Robespierre. Del resto è più di un
secolo che la città natale di Robespierre ha annunciato la
costruzione di un museo dedicato al principale artefice della
Rivoluzione francese. Museo di cui, però, la prudenza per decenni
ha suggerito il perenne rinvio. Persino della posa della prima pietra.
È come se, almeno per quel che riguarda Robespierre, «la
Rivoluzione non sia ancora terminata». Non si capisce perché, si
interroga Martin, si possa tranquillamente discutere «della violenza
di Marat, della venalità di Danton o della frivolezza della regina Maria
Antonietta» ma, non appena si chiama in causa Robespierre,
«subito la sensibilità nazionale viene scossa». I suoi ammiratori non
sono nemmeno disponibili ad ammettere che avesse la pelle
rovinata. Nel contempo, sulle sue spalle viene addossato – dai
detrattori – il pesantissimo fardello dell’intera stagione del Terrore.
Tutto ciò è stato frutto dell’astuzia di Bertrand Barère de Vieuzac e di
Jean-Lambert Tallien, i quali dopo averlo fiancheggiato e spesso
scavalcato nei giorni più sanguinosi, ordirono poi contro di lui la
cospirazione del 9 termidoro (27 luglio) 1894, e lo mandarono a
morte assieme ad altri 71 «robespierristi». Furono Barère e Tallien
ad annunciare che il Paese – in quel momento e per merito loro – si
era sbarazzato del «tiranno» e poteva finalmente uscire dalla
dittatura. A Barère, a Tallien e ai loro sodali è «brillantemente
riuscito», scrive Martin, «il gioco di prestigio di far dimenticare le loro
specifiche responsabilità nel Terrore, nonché gli stretti rapporti che
avevano avuto a lungo con lo stesso Robespierre».
Tali circostanze colpirono già nel 1824 i fratelli Michaud che
diedero alle stampe il trentottesimo tomo della Biographie
universelle, un’opera decisamente ostile alla Rivoluzione, in cui si
spiegava però come non si dovesse cedere alla tentazione di
immaginare che Robespierre fosse stato «l’autore di tutti i crimini»
addebitatigli. Molte di tali nefandezze le aveva condivise con alcuni
di quelli che «dopo aver contribuito a rovesciarlo, si sono presentati,
ancora imbrattati del sangue delle sue spoglie, come i difensori della
giustizia e dell’umanità». La verità, riconoscevano già due secoli fa i
fratelli Michaud, è che – «similmente a quegli animali impuri che
alcuni popoli dell’antichità caricavano delle nequizie di una nazione
intera» – Robespierre è stato ingiustamente ritenuto, dopo la sua
decapitazione, responsabile non soltanto dei crimini perpetrati con la
correità dei componenti dal Comitato di salute pubblica ma «persino
di quelli commessi dai suoi nemici». Tutto questo Martin lo ha ben
chiaro. Il comandamento a cui ha deciso di obbedire è stato, di
conseguenza, quello di sottrarsi alla disputa tra ammiratori e
denigratori del rivoluzionario francese. E di esaudire la richiesta che
fu di Marc Bloch: «Robespierristi, anti-robespierristi, vi supplico con
umiltà, limitatevi a dirci chi fu Robespierre!».
Per riuscire così a rispondere a una fondamentale e ineludibile
domanda: come è mai possibile che un uomo la cui esistenza si
riduceva a pochissimo, che «visse senza denaro», che «non
disponeva di relazioni importanti», che «mai ottenne poteri
eccezionali», sia riuscito a conquistare un ruolo tanto cruciale? Il fine
è quello di comprendere «come e perché gli elementi della sua
breve vita abbiano potuto favorire la costruzione di quella mostruosa
impalcatura che lo ha seppellito e al tempo stesso reso immortale».
Cosa che, fa notare Martin, «non ha invece avuto luogo per nessun
altro dei suoi contemporanei, neppure per quelli che gli furono vicini,
fossero amici o avversari».
Il saggio di Martin è molto accurato e ricco di notazioni intelligenti
nel descrivere la «carriera rivoluzionaria» di Robespierre. Ma di
ancor maggiore interesse è la parte del libro che prende in esame la
fase iniziale della sua vita. Non ha alcun senso – scrive l’autore – far
risalire il suo carattere a quanto accaduto nell’infanzia e nella
giovinezza. È sbagliato fissarsi, come Max Gallo, sulla «solitudine»
infantile del rivoluzionario. È vero: Maximilien de Robespierre
nacque a metà Settecento (1758) da un matrimonio contrastato; fu
orfano di madre a sei anni e poco dopo venne abbandonato dal
padre; rimase solo e poi fu un povero studente a pensione, rinchiuso
in un collegio di Parigi; quindi fu «un avvocato che vivacchiava in
una provincia poco accogliente». Ma, fa notare Martin, anche
Napoleone Bonaparte fu orfano di padre, anche Georges Danton e
Jean-Jacques Rousseau ebbero un’infanzia travagliata, anche il
padre dello stesso Rousseau e quello di Jean-Paul Marat si
dileguarono quando i loro figli erano ancora piccoli. E va ricordato
che all’epoca almeno un bambino su dieci perdeva il padre o la
madre nei primi dieci anni di vita. Capitò a Jacques-René Hébert, a
Jérôme Pétion. Joseph Fouché il padre lo perse a dodici anni.
La Chiesa fu, in compenso, generosa con lui. Robespierre studiò
nel collegio religioso di Arras grazie a una borsa di studio
dell’abbazia di Saint-Vaast assegnata direttamente dal vescovo
riformatore monsignor de Conzié. Soldi per la sua formazione
ottenuti per i buoni uffici di due sue zie. La leggenda vuole che, in
virtù dei suoi successi scolastici, sia stato scelto nel 1775 per
pronunciare, in nome del collegio in cui studiava, un omaggio al
giovane Luigi XVI. Ci sono dipinti che lo raffigurano inginocchiato
sotto la pioggia ai piedi della carrozza del re. Ma si tratta appunto di
una voce tramandata. Il suo più recente biografo, Hervé Leuwers,
non ha trovato tracce archivistiche che garantiscano l’autenticità
dell’aneddoto. Nel marzo del 1782, a ventiquattr’anni, Robespierre fu
nominato giudice della corte vescovile di Arras. Precoce: il che
«attesta una volta di più che egli poteva contare sulla protezione del
vescovo e su una potente rete familiare», scrive Martin. E non fu
affatto un «avvocato senza cause e senza successo» come più volte
è stato scritto. Tra il 1782 e il 1789 patrocinò in media dai dodici ai
ventiquattro procedimenti (uno o due al mese) davanti al Consiglio
d’Artois, intervenendo in una ventina di udienze l’anno. A queste,
scrive Martin, vanno aggiunte «alcune cause patrocinate presso altre
giurisdizioni locali e le funzioni esercitate con l’incarico di giudice
della Camera episcopale, che lo portarono a inviare al patibolo un
assassino». Esperienza che lo avrebbe «segnato profondamente».
La ricostruzione di Martin è molto scrupolosa. Si scopre che
Robespierre, divenuto negli anni che precedettero la Rivoluzione
direttore dell’accademia di Arras, era assai meno «irrequieto» di un
Marat o di un Brissot, «uniti nella denuncia dei pregiudizi nel rifiuto
dei salotti, nella contestazione delle gerarchie». Che lui, a differenza
di molti altri futuri rivoluzionari, frequentava i salotti e «piaceva in
società». Che non fu mai affiliato alla massoneria. Che era «un
cantante scadente ma un discreto ballerino». Che scrisse versi
ritenuti da Henri Guillemin di «nullità poetica, ma di buona fattura».
Era insomma «un giovane uomo alla moda». Lo studioso affronta poi
il tema, più volte analizzato, della «castità insolita, addirittura
inquietante» di Robespierre, il quale oltretutto aveva fin da bambino
«un’autentica passione per il ricamo». L’epoca era certamente
segnata «dagli appetiti sessuali di un Mirabeau o di un de Sade, o
anche di Danton, ma la libertà di costumi non era in generale
diffusa». Marat confessò di non aver avuto rapporti sessuali prima di
aver compiuto i ventun anni. Carnot, fallito nell’intento di sposare
una ragazza di Digione corteggiata a lungo, si sposò a trentotto anni.
L’astinenza «non era poi così eccezionale in un tempo in cui
bisognava essere sistemati per costruire una famiglia e le statistiche
ci ricordano che l’età media di un uomo al matrimonio era attorno ai
ventisette anni».
E il sangue versato nella fase conclusiva della Rivoluzione? Dopo
anni di ricerche, scrive lo storico, non si può che giungere a un’unica
conclusione: è sbagliato indicare Robespierre come il solo
responsabile della violenza rivoluzionaria dal momento che, al di là
delle testimonianze interessate, «niente negli archivi come nella
memorialistica permette di affermarlo». Fu senza dubbio «tra coloro
che inventarono la rivoluzione», ma lo fece «come tutti senza
esserne pienamente cosciente, il più delle volte senza dominarne gli
sviluppi e ancor meno le conseguenze». La sua peculiarità consiste
nel fatto di esser divenuto – come si diceva – un capro espiatorio, e
soprattutto di essere servito a dare una spiegazione «della svolta più
significativa della rivoluzione». In questo non è del tutto solo. I
Girondini e, «anche se a minor titolo», gli Hébertisti (gli «esagerati»,
seguaci di Jacques-René Hébert), oppure Georges Danton, ma
soprattutto Jean-Baptiste Carrier «che raggiunse Robespierre
nell’obbrobrio», sono stati «tutti gettati in pasto alle belve quando
l’urto dei partiti e delle fazioni lo richiese». Robespierre «subì però la
cosa nel momento più difficile, fu subito confuso con un sistema,
quello del Terrore, inventato per l’occasione» e, «tramite una
propaganda spudorata», lo si rese «colpevole delle peggiori
atrocità». Certo, riconosce lo studioso, «la sua personalità vi si
prestava». L’uomo privato «si era dissolto in un astratto spazio
pubblico, quello delle tribune e dei discorsi». Non era stato – a dire il
vero – un «cospiratore e un manipolatore» come Mirabeau, neppure
un leader d’opinione come Brissot e non aveva «nessuno dei tratti
eccessivi di Danton»; non aveva neppure la «capacità politica» di
Barère, Vadier, Carnot oppure Fouché, tutti disponibili al
compromesso e «pronti, all’occorrenza, a farsi dimenticare».
Insomma il 9 termidoro «la corona di spine non gli venne posta sul
capo a caso». Molto più di altri «aveva assunto un atteggiamento
sacrificale, raccoglieva consensi, faceva temere di puntare a una
magistratura suprema», ma «non disponeva di una precisa linea
politica». Sapremo mai, si domanda Martin, quali furono davvero le
sue intenzioni in quei quattro anni di rivoluzione? «Sicuramente no»
risponde lo storico. No, dal momento che «non è affatto sicuro che
avesse una chiara idea delle cose». Ma, aggiunge lo storico, non è
che i suoi amici, poi divenuti suoi avversari, ne avessero una
migliore. Così, la manovra che scatenarono contro di lui sfuggì loro
di mano e provocò quell’onda d’urto che rafforzò e finì per fissare
l’immagine di Robespierre, dimostrando una volta di più due cose
fondamentali. La prima è che spesso (quasi sempre) «gli uomini non
hanno alcuna idea della storia che stanno producendo». La
seconda: quanto sia inutile oltreché falso attribuire a un individuo
soltanto chiunque sia – Robespierre in questo caso – «un ruolo
eccezionale».
Nei giorni che portarono alla destituzione e alla decapitazione del
principale protagonista della Rivoluzione francese, le cose, secondo
Martin, furono molto più banali di quanto si creda. Non ci fu «enigma,
né trascendenza, né abominio demoniaco»; solo «giochi politici e
politiche urgenze, rivalità tra uomini e drammatiche difficoltà di uno
Stato in guerra». Ci fu soprattutto «la tradizionale alternanza di
momenti di forza e momenti di debolezza che scandiscono la vita dei
grandi protagonisti della storia». Ne vien fuori una ricostruzione
assai più convincente di quelle tradizionali. Siano state esse
simpatizzanti o grondanti ostilità nei confronti di Robespierre
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