L’albero di Goethe  –  Helga Schneider 

SINTESI DEL LIBRO:

Willi aveva le guance viola. Faceva molto freddo: sembrava ancora
inverno. Si calò il berretto sulle orecchie e avanzò contro il vento che
gli tagliava le guance. Aveva quasi finito. Era rimasto un volantino
solo.
Lo aveva fatto per Dieter.
Subito la mamma non era stata contenta. Non per la cosa in sé:
anzi. Secondo lei era ora di farla finita con Hitler, e da un bel pezzo.
Ma per un ragazzo fare quelle cose era pericoloso. Anche un
ragazzo grande come Dieter, che andava all’università, un uomo,
ormai. L’uomo di casa, da quando il papà era morto nel secondo
anno di guerra.
La mamma non era contenta, ma Dieter non aveva cambiato idea.
Alla fine aveva dovuto cedere lei.
Willi si strinse nel cappotto, troppo leggero, troppo corto. Sfiorò
con le dita il volantino ripiegato in quattro dentro la tasca. Era
toccato a lui. Dieter era ammalato, aveva la febbre alta. Gli occhi
lucidi e la voce roca per il mal di gola, lo aveva guardato uscire,
quella mattina, inseguendolo con lo sguardo: «Dovevo finire la
distribuzione. Ieri. Siamo in ritardo. In ritardo».
Non aveva chiesto niente, Dieter. Ma Willi aveva capito.
I volantini erano in cantina. Arrivavano due volte la settimana,
sempre di notte. Il ragazzo della tipografia aveva le chiavi, gliele
aveva date Dieter. Scivolava silenzioso dentro il portone, poi giù per
le scale, furtivo. Depositava il pacco in cantina e spariva come
un’ombra. Il suo nome in codice era Scoiattolo.
Se Dieter non poteva agire, Willi sì. Quella mattina aveva solo
fatto finta di andare a scuola. Invece, nell’atrio aveva pescato la
chiave della cantina dal cassetto dello stipo, coprendo il gesto col
proprio corpo e il rumore del cassetto che si apriva con la voce
alzata in un saluto: «Ci vediamo, mamma». Scese le scale, non si
era fermato nell’ingresso. Aveva dovuto fare solo una rampa in più.
La cartella era rimasta giù in cantina. E sotto il suo cappotto era
finito un fascio di volantini, la carta grigia, povera, le lettere grandi,
un po’ sbavate, che urlavano il loro messaggio: Tedeschi! Perché
continuate a tollerare un regime tirannico che vi priva palesemente di
un diritto dopo l’altro?
Era uscito per la strada, stringendosi nel cappotto, come se
avesse freddo. Ma c’era freddo davvero.
Ne era rimasto solo uno. L’ultimo volantino. Poi di corsa a casa, si
disse Willi, soddisfatto di sé. Era stato rapido, attento. Già
immaginava la faccia di Dieter. Forse mi sgriderà, pensò. Ma poi
sarà contento anche lui.
Ecco. L’uomo si avvicinava alla fermata dell’omnibus, il passo
deciso ma non frettoloso. Sembrava un tranquillo padre di famiglia.
Sì, era la persona giusta. L’omnibus si avvicinava già, sferragliando.
L’uomo aveva il cappello grigio con la tesa un po’ calata sugli
occhi. Sembrava distratto, assorto nei suoi pensieri. Non fece caso
nemmeno allo strillone del Völkischer Beobachter che gli passò
vicino gridando i titoli. Willi gli andò incontro: ecco, era davanti a lui.
Per un attimo i loro sguardi s’incrociarono. Nello stesso istante Willi
gli tese il volantino, pronto a sparire nella folla. Ma una mano gli
serrò il braccio.
«Fermo, giovanotto!»
Willi si sentì il cuore paralizzato da un’ondata di terrore. Cercò di
divincolarsi, ma la presa era di ferro. L’uomo lo tratteneva con la
mano sinistra. Nella destra stringeva il volantino, e lo guardava
tenendolo un po’ distante, col braccio teso, come chi ha qualche
difficoltà a leggere da vicino.
«Come pensavo» disse dopo un attimo, minaccioso.
Un secondo uomo lo raggiunse. Era più basso, tarchiato. Anche
lui con la tesa del cappello a nascondere lo sguardo.
«Che cos’ha fatto?» chiese, senza preamboli.
«Resistenza» rispose il primo, asciutto.
Willi si sentì stringere le braccia sopra i gomiti. Inutile ribellarsi. Il
cuore, che per un istante gli era sembrato di pietra, aveva ripreso a
battere, a una velocità impossibile. Se lo sentiva in gola, nelle
tempie, nei polsi, dappertutto. E qualcosa di simile a un pugno
chiuso gli strizzava lo stomaco, mandandogli ondate di nausea fino
in gola. Era quello il sapore della paura?
In una stradina laterale era parcheggiato un furgone aperto. I due
vi sospinsero Willi, che nel salire incespicò, ma non cadde.
Qualcuno lo sorresse, gli fece posto. Quando i suoi occhi si furono
abituati all’oscurità dell’interno, distinse molte facce. Quindici, venti.
Ragazzi, uomini. Poi il portellone fu richiuso e il furgone si mise in
moto.
Un largo corridoio ad archi, una fila di globi luminosi appesi al
soffitto, scure panche di legno lungo i muri. La luce era incerta,
giallastra. C’era freddo, come fuori, di più.
Erano lì da ore. Willi non sapeva quante. Aveva fame e sete, e un
pensiero lo tormentava. Chissà Dieter, chissà sua madre. Sapevano
già? Almeno poter telefonare. Ci aveva provato, l’aveva chiesto
subito. Non gli avevano nemmeno risposto. Le guardie, tre,
guardavano dritto davanti a sé, i volti di pietra. Non sembravano
autorizzate a parlare. O forse non ne avevano voglia. Rispondevano
a una sola richiesta: andare in bagno. E in questo caso uno dei tre si
piazzava davanti alla porta, a gambe larghe.
Dalle finestre non filtrava più la luce del giorno. Era tardi. Molto
tardi. Ma gli interrogatori erano lenti. Di una lentezza esasperante.
«Ormai dev’essere notte» disse un ragazzo seduto vicino a Willi.
Willi lo guardò. Doveva avere diciassette, diciotto anni. Una faccia
aperta, da bravo ragazzo, occhi onesti, colmi fino all’orlo di
inquietudine.
«Mia madre non sa dove sono» disse Willi.
«Nemmeno la mia» replicò l’altro. E aggiunse: «Mi chiamo
Alexander, ma puoi chiamarmi Alex».
«Io Willi».
«Willi come Wilhelm?»
«Sì».
«E come mai ti hanno beccato?»
«Volantinaggio».
«Così giovane? Sembri un bambino...»
«Ho quattordici anni» disse Willi, raddrizzando le spalle.
Sul viso di Alex passò l’ombra di un sorriso. Poi il ragazzo si
rabbuiò.
«Brutto affare» disse.
«Davvero?»
«È attività sovversiva, non lo sapevi?»
«S...sì. L’ho fatto per mio fratello».
Una delle guardie urlò: «Silenzio! Chiudere il becco!»
Alex e Willi chinarono il capo, intimoriti.
In quel momento, un ragazzo si alzò di scatto. «Sono stufo di stare
qui, capito? Voi non avete il diritto di trattarci così...»
Altri tre, quattro lo seguirono a ruota. Erano un po’ più grandi di
Willi. Protestarono, gridarono. Una guardia si sfilò il manganello dalla
cintura e colpì il primo, sulla spalla, poi sulla testa. Gli altri urlarono
più forte. Le guardie si fecero avanti, minacciose.
«Quelli sono ragazzi di vita» mormorò Alex.
«Cosa?» disse Willi, senza distogliere gli occhi dallo spettacolo.
Due ragazzi si erano gettati a terra, scalciando come ossessi. Le
guardie li picchiavano senza pietà.
«Vanno con gli uomini per soldi. Li hanno presi alla stazione. Si
trova di tutto, là. Non vedi? Magari sono anche drogati» disse Alex.
«Drogati?» mormorò Willi, perplesso.
Alex scosse il capo. «Ho capito. Sei piccolo, tu. Lascia perdere,
non sono cose per te».
All’improvviso, com’erano cominciate, le urla cessarono. I ragazzi
si trassero in piedi a fatica, si risistemarono sulle panche. Uno aveva
un filo di sangue che gli colava sul mento. Un uomo anziano,
dall’aria distinta, osservava la scena come da una grandissima
distanza.
«E quello forse è un cliente» buttò lì Alex, a bassa voce.
«Cliente di chi?» chiese Willi.
«Dei ragazzini» rispose Alex con una smorfia.

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