Partigiani della montagna – Giorgio Bocca

SINTESI DEL LIBRO:
Eredità di un passato
Il colpo di stato del 25 luglio, per cui tutti i poteri, dalle mani di Mussolini,
ritornarono e si accentrarono nella monarchia, ebbe come caratteristica ben
definita di essere opera di uno stretto numero di persone. Fu la cerchia dei
generali, dei grandi industriali, dei funzionari di corte, a preparare ed attuare
il colpo di stato, a regalare, una bella mattina, al popolo italiano una
sottospecie di libertà.
Libertà con coprifuoco, con cordoni di polizia, con censura, coi gerarchi
accolti e protetti nell'esercito, coi tedeschi in casa, con la guerra fascista che
continuava.
La verità è che il 25 luglio rappresentò il tentativo della reazione di salvare il
salvabile e, per quanto appaia paradossale, il tentativo del fascismo di salvare
se stesso.
Diciamo del fascismo, quando per esso si intenda non solo l'orbace e il
distintivo, ma il principio della forza come regola di vita, della concussione
dei diritti altrui, della presunzione nazionalista ed imperialista, dello
sfruttamento del popolo. La reazione aveva sentito avvicinarsi il movimento
popolare di ribellione e l'aveva prevenuto. Gli scioperi del marzo non erano
passati inawertiti.
Ma cosa v'era di mutato se centinaia di Adami Rossi rimanevano ai posti di
comando, se molti Tringali Casanova potevano camuffarsi, se Burgo,
Agnelli, Donegani continuavano le loro speculazioni, se Badoglio si
atteggiava a dittatore in funzione di un re autoritario? Al popolo non rimase
che ascoltare gli ordini trasmessi dagli altoparlanti e leggere sui giornali le
pornografie delle Petacci. Di queste si poteva ben parlare liberamente senza
timore di compromettere con rivelazioni sensazionali gli uomini che si erano
posti d'autorità a dirigere la nazione.
Nessun cenno al resto, non alle responsabilità della guerra, non alle
responsabilità relative al fascismo.
Ciò significava accusare il fascismo, ed il fascismo sotto altra veste era
ancora al potere.
Non era difficile sentire la necessità di togliere al più presto la nazione dalla
situazione falsa in cui si trovava, capire che non c'era altro da tentare che
uscire dalla guerra antidemocratica, per entrare in quella antinazista. Ma chi
governava si preoccupava anche di salvare se stesso.
Fu negoziato l'armistizio con gli alleati per conquistare il mezzo di restare
ancora al potere, ma non si pensò a dare ordini precisi all'esercito, a guidare e
dirigere di persona la lotta antitedesca. Il re e Badoglio presero l'aereo per la
Sicilia, mentre la radio trasmetteva il comunicato ambiguo ed incerto del
maresciallo.
Questa fuga rappresentò la salvezza per il popolo italiano.
Lo lasciò abbandonato, ma libero di decidere finalmente di se stesso e da se
stesso, di creare da solo, attraverso una dura lotta, le basi per la sua nuova
vita, di eleggersi i capi capaci di guidarlo, di renderlo cosciente che poteva
fare a meno di re, di marescialli e dell'altra accolita tutta, che per tanti anni
era vissuta alle sue spalle.
Dal governo militare badogliano il popolo non ebbe in pratica, salvo il
benefico abbandono, altro che confusione e incertezze, come traspare dal
brano che segue, stralciato dal diario di uno degli ufficiali dell'allora esercito
regio.
Nelle camerate giunge ad ondate l'odore acre delle latrine.
Gli uomini giacciono sui loro pagliericci completamente vestiti e per
guanciale hanno lo zaino già preparato.
sembra d'essere in una incubatrice di bachi da seta disposti sui graticci.
Il portone principale della caserma è sprangato e, nel cortile immenso, solo
un piccolo gruppo di ufficiali sta discutendo.
Ieri sera la radio ha trasmesso la notizia dell'arrnistizio ed il comunicato di
Badoglio, oggi il colonnello ha fatto consegnare la truppa in caserma.
Le voci che giungono dall'esterno dicono che i tedeschi stanno avanzando da
Torino con una colonna corazzata e che in serata giungeranno a Cuneo.
Restano poche ore per preparare una resistenza, per distribuire le scarse
munizioni, per collegarsi colle divisioni della N armata che stanno scendendo
dal colle di Tenda. Ma nessuno si muove.
I colonnelli, gli ufficiali superiori tutti, sono come inebetiti.
Sono rintanati nei loro uffici, aspettando sempre quell'ordine che non verrà
mai, quella decisione che debbono prendere da soli e che aspettano invece da
una autorità che più non esiste. Forse dal generale Vercellino, che vestito
l'abito borghese è sparito nel polverone della sua macchina di lusso? Forse
dal loro generale colto da una crisi nervosa e intento a farsi fare impacchi
freddi dalla consorte.
Cosa pretendono da uomini vissuti sempre in una tronfia presunzione, da
individui che hanno recitato la parte del guerriero nelle parate, intenti ad
arrotondare lo stipendio con le truffe di caserma? Cosa pretendiamo noi dai
comandanti del 11 Alpini indaffarati a porre in salvo i propri preziosissimi
fiori e a far trasportare il mobilio di casa in luogo più sicuro? Niente altro che
ci lascino liberi di decidere del nostro destino, visto che essi sono incapaci di
farlo. Il tenente Dunchi, che ha capito fra i primi, se n'è uscito dalla caserma a
mezzogiorno con una carretta carica d'esplosivo. Ora hanno sprangato le
porte e nessuno più esce. Per quale motivo? Nessuno lo sa e questa cosa è
terribile nella sua illogicità, la stessa che ci fa fumare nervosamente, di
continuo, e gridare agli uomini che si affacciano alle finestre di stare calmi.
Ma la nostra voce è così priva di convinzione che nessuno obbedisce. Nella
mente di ognuno la colonna tedesca è un incubo. Dove sarà ora? Cos'è quel
frastuono che s'ode fuori della porta? Porta sprangata, terribile. La guardo
fisso in attesa che da un momento all'altro un urtone la schiuda e che quattro
scagnozzi prussiani entrino a farci prigionieri. Non è possibile che tutto ciò
avvenga, che la stupidità collettiva giunga sino al suicidio! Le ore tuttavia
passano e nulla si muove nell'immenso cortile assolato.
Alle cinque di sera giunge dal cielo il rombo di un aereo sempre più vicino,
sbuca nello squarcio di azzurro, inquadrato dai muri della caserma, una
cicogna tedesca.
Passa bassissima e si vede l'osservatore sporgersi a guardare.
Compie due altri giri poi si allontana. Ma ora qualche cosa si è spezzato, si è
infranto l'incubo che ci paralizzava.
Il nemico è quello, fatto di uomini come noi e contro cui si può lottare. Non
più la minaccia vaga, ma tremenda di una forza senza volto che si avvicina e
che non si può evitare, ma qualche cosa di visibile, di misurabile. I soldati
sono scesi a folla in cortile e premono verso i portoni laterali. Anch'essi
hanno compreso che è giunto per loro il momento della decisione.
Così ad un tratto, senza ben sapere come, le porte si aprono e la folla esce
dalla prigione verso la vita.
Parlo con alcuni miei amici e mi accordo per ritrovarli fra mezz'ora. Tutti
sono usciti, solo in qualche ufficio restano vecchi ufficiali incapaci di
marciare soli, senza una guida.
Salutati affrettatamente i miei a casa, raggiungo i compagni presso lo
stradone che scende alle pianche di Stura.
Siamo in cinque, ancora vestiti con la nostra divisa da ufficiali.
Passando presso alcune ragazze, sento amare parole: "Guardali i coraggiosi
che scappano!". Questa è l'ultima eredità che ci lasciano i nostri superiori, ma
non importa; dinnanzi a noi si apre la Val Grana e procedendo ci pare che
l'aria si faccia più limpida e azzurra. Anche nei nostri cuori è qualche cosa di
mutato. Incomincia una nuova vita.
SCARICA IL LIBRO NEI VARI FORMATI :
Commento all'articolo