Per ordine del re – Susan Wiggs

SINTESI DEL LIBRO:

 Stephen de Lacey, Barone di Wimberleigh, entrò nella Camera da Letto
Reale e vi trovò la sua fidanzata a letto con il sovrano.
Il volto freddo e impassibile come un ritratto di Holbein, Stephen fissò la
bellissima fanciulla gallese dagli occhi scuri, a malapena coperta dal copriletto
di seta, e un’ondata di bile gli salì in gola, minacciando di soffocarlo. I pugni
stretti, Stephen si controllò e rivolse uno sguardo deliberatamente vacuo a Re
Enrico VIII.
«Mio sovrano» disse, piegandosi in un rigido inchino e inalando il
profumo di lavanda e bergamotto che proveniva dai sacchetti appesi alle
cortine del letto. Quando si raddrizzò, era arrivato l’attendente che avrebbe
aiutato il sovrano a vestirsi.
«Ah, Wimberleigh.» Il re tese le braccia e un servitore si precipitò a
infilargli una morbida giacca di seta. Enrico sorrise, e in quel sorriso indugiava
ancora un’ombra del suo antico fascino, dell’audacia del giovane principe
dorato di un tempo. Un principe che Stephen, da ragazzo, aveva idolatrato
come fosse un secondo Re Artù.
Solo che il leggendario sovrano di tutti i Britanni era morto giovane,
avvolto da un’aura di gloria. Enrico invece aveva commesso l’imperdonabile
errore di continuare a vivere e arrivare alla corrotta mediocrità della mezza età.
  «Avanti, venite» lo invitò il re, spostando le gambe gonfie oltre il bordo del
letto e infilando i pallidi piedi in un paio di pantofole di broccato rette da un
domestico in ginocchio. «Potete avvicinarvi al letto reale. Guardate che cosa vi
ho trovato.»
Mentre attraversava l’enorme stanza, Stephen percepì la bruciante
curiosità degli attendenti del sovrano. Ormai la camera era affollata di dignitari
reali, tutti impegnati a controllare le funzioni corporali più intime di Enrico... e
a influenzare le sue scelte politiche.
Per Sir Lambert Wilmeth, gentiluomo addetto alla comoda reale, i
movimenti intestinali del sovrano godevano della stessa considerazione che
riservava alle dispute sul confine scozzese; Lord Harold Blodsmoor,
responsabile del guardaroba reale, riteneva le scarpe del sovrano importanti
quanto i gioielli della corona. Eppure, in quel momento, tutta l’attenzione di
quei gentiluomini era appuntata su di lui, Stephen de Lacey.
La fanciulla nel letto gli rivolse un timido sorriso e riuscì persino ad
arrossire. Quindi si stiracchiò con grazia felina, offrendo una spalla nuda alla
vista dei presenti. Come la maggior parte delle amanti del re, anche lei provava
un orgoglio perverso nel frequentare il letto del sovrano.
Stephen sapeva che, dopo tanti tradimenti, non avrebbe dovuto fidarsi di
Enrico, e che quella convocazione poteva significare soltanto l’ennesima,
meschina crudeltà del sovrano.
«Stamattina mi sentivo pieno di vita.» Il sogghigno di Enrico grondava
malignità e subdolo rancore. Zoppicando lievemente, il re andò alla comoda
reale e continuò il discorso mentre evacuava. «Così ho deciso di esercitare – di
nuovo – il droit du seigneur. Un concetto un po’ antiquato, certo, ma che ha i
suoi lati positivi e che è necessario rimettere in uso di tanto in tanto. Bene, ora
fate un grazioso saluto alla vostra signora, Gwenyth, e poi noi...»
«Sire» intervenne Stephen, ignorando i sussulti sbigottiti dei nobili
presenti. Nessuno interrompeva il re. Nel corso dei trent’anni del suo regno,
Enrico VIII aveva mandato a morte delle persone per molto meno.
Immediatamente Stephen si pentì di avere osato tanto. Con quella sola,
precipitosa parola, rischiava di rovinare tutto.
«Sì?» Per fortuna il sovrano parve solo un po’ irritato, mentre i suoi
attendenti lo aiutavano a indossare farsetto e calzebrache. «Che cosa c’è,
Wimberleigh?»
Stephen non riuscì più a trattenersi. Una rabbia cieca gli sgorgò nello
stomaco come una fontana di fuoco. «Al diavolo il vostro droit du seigneur.»
Quindi, girando sui tacchi, uscì dalla Camera da Letto Reale. Si rendeva
ben conto della portata dell’infrazione che aveva appena commesso, ma sapeva
di non poter essere complice consenziente dei perversi giochetti che tanto
divertivano Enrico.
Le livree rosse e bianche dei valletti gallesi del re gli passarono accanto in
una scia confusa di colori mentre, a passo rapido, usciva nella corte centrale
lastricata. Poco dopo, mentre cercava un posto dove calmarsi un poco,
Stephen entrò in un giardino cintato, dove un sentiero di candida ghiaia lo
condusse attraverso piccole aiuole di rose canine e biancospini sistemate
secondo uno schema geometrico a formare una sorta di mosaico, piuttosto
grossolano per la verità.
Per la centesima volta Stephen rimpianse di aver risposto alla
convocazione annuale del sovrano e di non essere rimasto nel Wiltshire. Ma
rifiutarsi di obbedire all’ordine, significava mettere in pericolo la sola cosa che
lui era disposto a difendere con la vita. Così, se per proteggere il suo segreto
doveva lasciarsi spezzare il cuore ed essere pubblicamente umiliato, ebbene,
che così fosse.
La sua convinzione che il re non avesse finito con lui si dimostrò esatta,
poiché un’ora più tardi un altezzoso maggiordomo lo convocò nella Sala delle
Udienze.
La stanza aveva un alto soffitto di legno a cassettoni, ed era illuminata dai
pallidi raggi del sole di inizio primavera, che filtravano da file gemelle di
finestre a più luci. I vetri colorati creavano disegni variopinti in continuo
movimento sul pavimento e sulle pareti. Nascosto da qualche parte, un liuto
suonava una sommessa melodia che faceva da sottofondo al mormorio delle
voci.
Nella sala Stephen riconobbe diversi membri del Consiglio Privato del
sovrano, che osservavano tutto con occhi penetranti, le spalle curve sotto le
lunghe vesti pesanti.
Stephen camminò sul pavimento di lastre di pietra e si fermò davanti al
trono, ornato di drappi rossi e oro. Là si gettò il mantello foderato di raso su
una spalla e si esibì in un formale, rispettoso inchino. Pur senza guardare il re,
sapeva che Enrico avrebbe apprezzato l’atteggiamento di sottomissione di un
uomo del suo rango. A Enrico piaceva tutto ciò che faceva sentire Stephen più
piccolo.
Quando si rialzò, Stephen aveva un’espressione di sfida negli occhi e un
dono tra le mani.
Enrico, seduto sul suo scranno intagliato, sembrava un Bacco avvolto
d’oro e d’argento. Negli ultimi anni il suo volto era diventato grasso come la
natica di un bue.
«Che cos’è quello?» domandò, e fece cenno a un paggio, che prese il
piccolo scrigno di legno dalle mani di Stephen e lo consegnò al sovrano.
Enrico lo aprì con infantile impazienza, estraendone un piccolo orologio con
una catena d’oro. «Ebbene, milord, voi non smettete mai di stupirmi.»
«Oh, è un gingillo, nulla di più» ribatté Stephen in tono piatto, atono.
Enrico aveva molti appetiti, gran parte dei quali insaziabili, tuttavia soddisfare
la sua brama di doni sensazionali era piuttosto semplice.
Il re fece scivolare la catena sotto la fascia che gli circondava l’ampio
ventre. «Immagino sia un pezzo unico.»
  Stephen annuì.
«Voi avete un talento raro per ogni tipo di invenzioni, Wimberleigh. È un
peccato che siate così carente nei modi» continuò il sovrano. L’ampiezza delle
sue guance faceva sembrare piccoli gli occhi, sottile e tesa la bocca. «Avete
lasciato la Camera da Letto Reale senza chiedere il permesso, milord.»
  «In effetti, sì, Sire.»
La mano grassoccia e scintillante di anelli di Enrico si abbassò con forza
sul bracciolo dello scranno, le sue dita strangolarono una delle figure intagliate
nel legno. «Maledizione, Wimberleigh. Dovete sempre oltrepassare i limiti della
decenza e del decoro?»
  «Soltanto quando vengo provocato, Sire.»
L’espressione del sovrano non cambiò, ma un fuoco divampò nei suoi
occhietti. «Non vi è mai venuto in mente» domandò in tono sommesso ma al
tempo stesso sinistro, «che fareste meglio a danzare con la vostra promessa
sposa invece che con la mia pazienza? Lady Gwenyth è incantevole, di ottimi
natali e ragionevolmente ricca.»
  «E ora anche rovinata, Sire.»
«Io ho reso onore alla fanciulla» scattò il re. «C’è solo un Re d’Inghilterra,
così come c’è soltanto un sole. E io non riservo i miei favori a una donna
soltanto.»
Stephen si morse la lingua per non replicare. Era inutile discutere con un
uomo che era convinto di avere un corpo celestiale e che poteva soddisfare
ogni suo capriccio, poiché chi mai avrebbe osato rifiutargli qualcosa?
«Per l’amor del cielo, Stephen!» tuonò Enrico. «Il vostro atteggiamento è
intollerabile. Nel corso dell’ultimo anno vi ho trovato quattro dame adatte a
voi e le avete rifiutate tutte. Che cosa vi fa credere di essere migliore degli altri
nobili?»
«Semplicemente, non desidero risposarmi» dichiarò Stephen. E non poté
trattenersi dall’aggiungere: «Io non riservo i miei favori a nessuno, tanto meno
a quello sciocco confettino gallese che oggi ho trovato nel vostro letto».
  «I confettini sono dolci e molto gradevoli» osservò Enrico.
«Sì, ma quando vengono toccati da troppe dita perdono il loro sapore. E
se si lasciano per troppo tempo soli, vanno a male.»

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