Mele rosse e storie di famiglia – Susan Wiggs

SINTESI DEL LIBRO:
L’aria profumava di mele e il frutteto risuonava del ronzio delle api che
aleggiavano sulle casse dei frutti già raccolti. Gli alberi, in condizioni
perfette, attendevano l’arrivo degli operai. I rami erano stati potati in modo
da offrire facili punti di appoggio per le scale, le ultime fastidiose marmotte
erano state intrappolate e portate via, le stradine tra i tronchi lisciate per
evitare che i frutti venissero sballottati durante il trasporto. Una fredda
foschia gravava sulla valle, ma il sole, già maturo sul profilo delle colline a
oriente, prometteva bel tempo e temperature gradevoli. I raccoglitori
sarebbero stati lì a momenti.
Magnus Johansen salì in cima alla scala, sentendosi solido come un
giovane con un quarto dei suoi anni. Isabel lo avrebbe sgridato se lo avesse
visto; sua nipote gli avrebbe detto che solo a un vecchio ostinato come lui
poteva venire in mente di cominciare a lavorare da solo, senza aspettare gli
altri. Ma Magnus amava quella prima solitudine; gli piaceva la sensazione
di avere il frutteto tutto per sé nel profondo silenzio dell’alba. Era entrato
nell’ottava decade della sua vita; Dio solo sapeva quanti raccolti gli
restavano da vedere.
Isabel si preoccupava troppo per lui in quel periodo. Gli stava sempre
addosso, come un’ape operaia sugli alberi della seta che circondavano il
frutteto. Non aveva motivo di crucciarsi in quel modo. Avrebbe dovuto
sapere che suo nonno era già sopravvissuto a quanto di meglio e di peggio
la vita aveva da offrire.
A voler essere sinceri, però, era lui a preoccuparsi per Isabel molto più
del contrario. Erano le cose che lei non sapeva a pesargli sulla coscienza
quella mattina. Non poteva tenerla all’oscuro per sempre. La lettera che
riposava sul ripiano della scrivania del suo studio aveva confermato le sue
più pessimistiche previsioni... a meno di un miracolo, l’intera Bella Vista
con annessi e connessi sarebbe andata persa.
Magnus fece quanto in suo potere per tenere a distanza i problemi che lo
angustiavano. Si era svegliato molto presto e, sapendo che quello era il
giorno, aveva bevuto in fretta e furia il caffè. Nel corso degli anni, aveva
imparato a riconoscere il momento della completa maturazione dei frutti. Se
si coglievano troppo presto, si incontravano delle difficoltà a staccare le
mele dai rami, troppo tardi, e c’era il rischio di ritrovarsi tra le mani dei
frutti senescenti, più inclini a deteriorarsi.
A volte, la mattina, si sentiva anche lui senescente, giù, fino nel midollo.
Non quel giorno, però. Lui era infatti pieno di energia e i suoi frutti avevano
raggiunto l’apice della perfezione. Ovviamente, aveva eseguito il test
dell’amido iodato, ma, ancora più importante, aveva affondato i denti in una
mela, riconoscendo dalla consistenza e dalla dolcezza della polpa che era
giunto il momento fatidico. Nei giorni a venire, il frutteto si sarebbe
trasformato in un alveare e le sue mele sarebbero partite verso i mercati di
tutto il paese dentro le cassette contrassegnate con l’etichetta della Azienda
Agricola Bella Vista.
Un trio di lucide Gravenstein rosso cremisi pendeva da un ramo
sporgente sopra la sua testa. Di solito, i rami difficili da raggiungere
venivano potati, ma quello era stato lasciato perché si capiva che sarebbe
stato produttivo. Ben consapevole di quel che faceva, lui allungò il braccio
al massimo della portata e le colse, facendole cadere nel cesto. Al giorno
d’oggi, la maggioranza dei raccoglitori si serviva di lunghi sacchi che
permettevano di lavorare con entrambe le mani, ma Magnus era della
vecchia scuola. Anzi, era vecchio e basta. Tuttavia, la terra continuava a
sostenerlo. C’era qualcosa, nel ritmo delle stagioni, nel rigoglio primaverile,
che lo manteneva vigoroso come un uomo molto più giovane. Aveva molto
per cui essere grato.
Anche molto da rimpiangere.
Quando cercò di afferrare le mele rimaste sul ramo, la scala oscillò
leggermente. Lui colse al volo il monito e scese, abbandonandole agli
spigolatori.
Mentre spostava la scala su un altro albero, sentì il ronzio frenetico di
un’ape in difficoltà tra gli alberi della seta. Le operaie, avide
dell’abbondante nettare delle folte infiorescenze, restavano sovente
intrappolate fra i petali. Gli agricoltori moderni preferivano sradicare gli
alberi della seta, Magnus invece li lasciava prosperare ai confini del
frutteto, creando un habitat ideale per api e farfalle, maggiolini e fringuelli.
Mosso da un impulso caritatevole, liberò l’insetto inferocito
dall’appiccicosa lanugine, sparpagliando in giro una manciata di semi che
presero subito il vento, sorretti dai loro delicati paracadute bianchi. Ignara
del fatto che tutta quella dolcezza poteva essere letale, l’ape tornò a tuffarsi
nella siepe e ricominciò a suggere il nettare, resa avventata dalla fame.
Magnus scrollò filosoficamente le spalle e passò oltre. Quando la natura
attirava una delle sue creature servendosi della dolcezza, non c’era niente
da fare. Mise in posizione la scala, incastrandola fra due rami, e si
arrampicò fino a raggiungere un’alta forcella. Là, la testa che spuntava dalla
chioma verde, si beò della gloria del mattino... la fragranza dell’aria, la
qualità della luce che filtrava attraverso la nebbia, i contorni della terra e la
distante fascia scura dell’oceano.
Venne sommerso da un’ondata di ricordi che generarono un senso di
nostalgia nel suo animo. Come se fosse il giorno prima, vide Eva china sui
tini colmi di frutta, che lo guardava sorridendo mentre supervisionava il
processo del raccolto... la sua sposa di guerra, felice di cominciare una
nuova vita in America con lui. Avevano costruito Bella Vista insieme. Era
davvero un peccato che la banca fosse in procinto di portarsela via.
A dispetto dei successi e delle tragedie, dei segreti e delle menzogne,
Magnus era stato ricoperto di benedizioni. Aveva vissuto insieme alla donna
che amava, il che era molto più di quanto fosse stato concesso a tanti poveri
disgraziati. Grazie ai loro sforzi congiunti, si erano creati un universo in
miniatura, trascorrendo le loro giornate immersi nella natura, mangiando
fette di pane fatto in casa sulle quali avevano spalmato il miele dei loro
alveari, condividendo tutta quell’abbondanza con lavoranti e vicini...
Eppure, la sua buona sorte aveva avuto un costo e il bilancio finale sarebbe
stato tratto da un potere più grande di lui.
Un cinguettio artificiale disturbò la quiete del mattino. Isabel gli aveva
comprato un cellulare, insistendo affinché lo portasse sempre con sé. Grazie
a Dio, era un modello semplice, che permetteva di effettuare e ricevere
chiamate, ma privo di tutte le altre funzioni che sarebbero servite soltanto a
confonderlo.
Mentre lo tirava fuori dal taschino della camicia di flanella, la scala
oscillò di nuovo. Sullo schermo era apparso un numero che non conosceva.
«Qui Magnus» disse come faceva sempre.
«Sono Annelise.»
Il suo cuore perse un colpo. Era la voce sottile di una persona anziana,
ma, oh, così familiare, a dispetto del tempo che era passato dall’ultima volta
che l’aveva sentita. Dietro il lieve tremito dell’età, lui riconobbe una donna
molto più giovane, che aveva amato tantissimo, anche se in modo diverso
rispetto a Eva.
Le sue dita si serrarono sul telefono. «Come diavolo hai trovato questo
numero?»
«Presumo che tu abbia ricevuto la mia lettera» disse lei, scivolando
senza rendersene conto nella loro lingua natale.
«L’ho ricevuta, sì, e credo tu abbia perfettamente ragione» disse lui,
lottando contro l’angoscia che gli serrava lo stomaco. «È giunto il momento
di svelare tutto.»
«Lo hai fatto?» chiese lei.
«Non ancora, però... sai, Isabel è... non mi va di turbarla.» La sua
Isabel... così preziosa e fragile, così danneggiata dalla vita in tenera età.
«E a Theresa non pensi? È anche lei tua nipote. Preferisci che lo venga a
sapere da te, oppure da uno sconosciuto? Gli anni passano e noi non
diventiamo più giovani. Se non ti decidi, lo farò io.»
«Va bene, va bene.» Lui odiò il cellulare, quel piccolo intruso elettronico
capace di incupire perfino la più meravigliosa delle giornate. «Me ne
occuperò io. Come ho sempre fatto. E se in virtù di qualche miracolo loro
dovessero perdonarci...»
«Certo che ci perdoneranno. Non smettere mai di sperare nei miracoli,
Magnus. Tu dovresti saperlo meglio di tutti.»
«Non chiamarmi più» disse lui, il cuore che gli palpitava nel petto. «Per
favore, non chiamarmi qui.» Troncò la comunicazione e mise via il
telefono. Si era alzato il vento, la foschia cominciava a diradarsi e il
profumo delle mele era diventato ancora più intenso. In alto, sopra la sua
testa, una coppia di falchi roteava lentamente nel cielo. Uno di essi si lasciò
sfuggire un richiamo lamentoso. D’istinto, senza riflettere, Magnus allungò
la mano verso un’altra mela, una bellezza succosa che penzolava da un
ramo alla sua sinistra, talmente lucida che poteva vedersi riflesso nella sua
guancia giallo pallido.
Il movimento sbilanciò la scala. Tentò di aggrapparsi a un ramo, ma
mancò la presa e poi non ci fu nulla a reggerlo all’infuori dell’aria nebbiosa.
A dispetto della brutale rapidità dell’incidente, Magnus sperimentò un
istante di assoluta consapevolezza, come se la cosa stesse accadendo a un
altro. Non ebbe paura... era troppo vecchio per perdere tempo con quel
genere di emozioni e la vita gli aveva insegnato molto presto che paura e
felicità non potevano coesistere.
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