Melancolia della resistenza- László Krasznahorkai

SINTESI DEL LIBRO:

 «Poiché il treno locale che collegava i villaggi gelati del
Bassopiano meridionale dal Tibisco ai piedi dei Carpazi non era
arrivato nonostante le indicazioni confuse del ferroviere che girava
disorientato tra i binari e le garanzie sempre più seccate del
capostazione, che ogni tanto usciva di corsa sulla banchina con
promesse molto precise (“Ma santa pazienza, questo qua è sparito
di nuovo…” scuoteva la testa il ferroviere visibilmente irritato), e
poiché il convoglio sostitutivo, formato da due sgangherate carrozze
con sedili in legno rimesse in circolazione solo per “casi eccezionali”
e trainate da una vecchia e malandata locomotiva 424, bene o male
era partito, anche se con un’ora e mezza abbondante di ritardo
rispetto all’orario, comunque approssimativo e non vincolante per un
treno speciale, i passeggeri accettarono nell’indifferenza, anzi con
un senso di rassegnato torpore, la notizia che il treno dell’Ovest,
inutilmente atteso, era stato soppresso, tanto in qualche modo
avrebbero raggiunto la destinazione voluta percorrendo l’ultima
cinquantina di chilometri sulla tratta secondaria. Nessuno si
sorprendeva più per fatti del genere, perché le condizioni dominanti
si ripercuotevano sul traffico ferroviario come su tutto il resto: l’ordine
delle abitudini non era più indiscutibile, la confusione avanzava
inesorabilmente in tutte le direzioni sconvolgendo la normale
quotidianità, il futuro appariva insidioso, il passato lontano e
dimenticato, mentre il normale corso delle giornate era talmente
imprevedibile che la gente si era arresa, nessuno si sarebbe più
stupito se d’un tratto le porte avessero cessato di aprirsi o se il grano
fosse cresciuto a testa in giù nel terreno, perché sebbene si
avvertissero i sintomi di un processo di distruzione in atto, le cause
sembravano imperscrutabili, e così non c’era altro da fare che
avventarsi tenaci sulle prime cose concrete che si potevano
afferrare, come fece la gente alla stazione del villaggio quando si
lanciò all’assalto contro le porte del treno bloccate dal ghiaccio
sperando di trovare posti a sedere, che in teoria avrebbero dovuto
esserci, ma il più delle volte non bastavano. Anche la signora Pflaum
(tornava dalla consueta visita invernale ai parenti) partecipò
attivamente all’inutile lotta (inutile perché nessuno rimase in piedi,
come poco dopo scoprirono), e quando riuscì a conquistare un
sedile accanto al finestrino nel senso di marcia del treno, dopo aver
spintonato le persone innanzi e bloccato chi si premeva contro le
sue terga con una forza sorprendente considerando la sua bassa
statura, per un bel po’ non riuscì a capire se fosse più indignata per
la vista dell’indecoroso pigia pigia, o arrabbiata e angosciata al
pensiero che il suo biglietto di prima classe valesse meno di nulla,
ma lì, avvolta dal puzzo di salsiccia all’aglio, grappe miste, tabacco
di pessima qualità, assediata da “volgari bifolchi” quasi spaventosi
con quei rutti e le urla, c’era una questione molto più urgente da
risolvere, legata al dannato viaggio che purtroppo era stata costretta
ad affrontare in giorni così insicuri: tornare a casa sana e salva. Le
sorelle vivevano in un isolamento pressoché totale, incapaci di
muoversi, vista l’età, e mai l’avrebbero perdonata se avesse saltato
la visita che da anni cadeva regolarmente all’inizio dell’inverno,
quindi era stato solo ed esclusivamente per fare un piacere a loro se
aveva preso la decisione di lanciarsi nella rischiosa avventura,
benché sapesse benissimo – come tutti, d’altronde – che qualcosa
intorno era radicalmente cambiato, ed era meglio evitare gli azzardi.
Ma comportarsi intelligentemente, ponderare con lucidità le
conseguenze di ogni gesto, non era davvero facile, perché
sembrava che persino l’aria fosse cambiata, nelle sue eterne
composizioni, in modo profondo, incomprensibile, come se il
principio sconosciuto che manda avanti il mondo – pur restando
sconosciuto l’ha fatto andare avanti, prova ne è il mondo medesimo
–, dopo aver sempre funzionato, all’improvviso fosse rimasto senza
forze, si percepiva ovunque aleggiare qualcosa di ben più difficile da
sopportare della consapevolezza che un pericolo è in agguato: la
sensazione generale che potesse accadere di tutto; perché quel “di
tutto” spaventava più del pericolo di normali disgrazie, privava le
persone di giudizio e ragione – l’effetto evidente era un’apatia
generale che si diffondeva lentamente. Raccapezzarsi tra gli eventi
insoliti, sempre più frequenti e spaventosi negli ultimi mesi, era ormai
impossibile, perché oltre a perdersi il collegamento tra notizie,
dicerie, chiacchiere, esperienze vissute (per esempio: c’era
qualcuno che poteva stabilire un ragionevole rapporto tra il gelo
tagliente giunto troppo precoce a novembre, misteriose tragedie
familiari, l’aumento dei disastri ferroviari, le voci allarmanti
provenienti dalla lontana capitale sull’incremento delle bande
minorili, il danneggiamento dei monumenti?), le notizie in sé, in ogni
caso, pur non dicendo molto prese singolarmente, sembravano tanti
segni premonitori di un’imminente – come si diceva sempre più
spesso – “catastrofe”. La signora Pflaum aveva sentito parlare di
strani cambiamenti nel comportamento degli animali, ma se questo –
come avvisaglia del futuro – sembrava al momento un irresponsabile
allarmismo, una cosa era certa: la gente per bene, al contrario di chi,
secondo la signora Pflaum, nel caos e nel disordine ci sguazza, era
arrivata al punto di aver paura a mettere il naso fuori casa, perché in
un mondo dove i treni possono essere cancellati “così”, concluse
nella sua mente, “nulla ha più senso”. Dunque aveva messo in conto
che il viaggio di ritorno sarebbe stato meno semplice dell’andata,
quando in prima classe si era sentita protetta – “Perché su questo
orribile treno locale”, pensò nervosa, “bisogna prepararsi al peggio”
–, si sedette con la schiena dritta, le ginocchia unite da scolaretta, lo
sguardo distaccato e sdegnoso verso il chiassoso parapiglia per
accaparrarsi gli ultimi posti che lentamente stava scemando – con
l’aria di chi avrebbe voluto essere invisibile –, poi, mentre osservava
tesa, piena di sospetto, il grappolo di facce sfocate nei riflessi del
finestrino davvero orribili, pensò, tra angoscia e nostalgia, alla
spaventosa distanza che ancora la separava da casa, e al calore
domestico che quell’immagine le rievocava: i piacevoli pomeriggi
insieme alla signora Mádai e alla signora Nuszbeck, le antiche
passeggiate domenicali sotto le fronde di viale Pap, la serenità
emanata dai mobili di forme leggere, i tappeti soffici, le piante curate
con amorevolezza, gli idolatrati ninnoli, e l’ordine casalingo che
rappresentava – oh, lo sapeva bene – un’isola felice
nell’imprevedibilità del mondo; per una donna sola come lei, abituata
a condurre un’esistenza quieta e serena, erano l’unica protezione e
rifugio su cui contare, anche se quegli antichi pomeriggi e quelle
domeniche restavano vivi solo nel ricordo. Guardava incredula,
persino invidiosa, i chiassosi compagni di viaggio – sicuramente
bifolchi che abitavano in sordide fattorie o villaggi dei dintorni – che
erano riusciti a adattarsi, anche molto velocemente, a quella
situazione di coesistenza forzata: per loro era normale, lo sentiva
dall’incessante fruscio dei fogli di carta oleosa svolti dai pacchi di
vivande, dai fiaschi stappati, dai tappi di birra che rotolavano sul
pavimento sozzo e unto, qua e là cominciò a sentire inconfondibili
schiocchi di bocconi masticati a bocca aperta, “comportamento che
offende terribilmente qualsiasi senso estetico”, ma sicuramente
“diffusissimo tra gente di questo infimo livello”, i quattro seduti
davanti, tra i più sguaiati, avevano addirittura organizzato una partita
a carte – lei era l’unica a mantenere una rigida compostezza, muta,
con la testa rivolta al finestrino, in quel crescendo di voci e
schiamazzi, sedeva su un foglio di giornale sistemato sotto la
pelliccia, così impegnata a stringersi contro il petto la borsetta chiusa
dalla fibbia, smarrita, piena di ostinati sospetti, che non si accorse
subito che là fuori – davanti – la locomotiva cominciava a muoversi,
proiettando fasci di luce rossa nel freddo buio della sera invernale.
Pur essendo notevole il sollievo che provò, non si unì al coro di
soddisfazione generale, e comunque la fragorosa allegria appena
esplosa, perché finalmente qualcosa succedeva dopo l’interminabile
attesa al gelo, durò poco, il treno, come se l’ordine di partire fosse
stato revocato all’ultimo istante, si fermò con alcuni maldestri
scossoni neanche cento metri fuori dalla stazione del villaggio ormai
inghiottita dal silenzio; il boato di delusione si mutò quasi subito in
risate tra l’incredulo e il furioso, ma quando fu chiaro che la
situazione era quella – meglio abituarsi all’idea che il viaggio
(sicuramente a causa dell’intrinseca confusione provocata da un
treno speciale fuori orario) sarebbe stato d’allora in poi un desolante
susseguirsi di brusche frenate e lente ripartenze –, molti, rapiti da
una beata sonnolenza, si abbandonarono al torpore di una sorda
rassegnazione, come se capire che il disordine degli eventi
dipendeva dall’incompetenza umana fosse stato un efficace
esorcismo contro la paura di oscuri cataclismi, perché allora bastava
un po’ di sana ironia per digerire il ripetersi delle cose. Benché la
grossolanità di certe battute, di sicuro ben più d’una (“Se stessi a
pensarci anch’io così tanto per infilarmi nel letto della mia donna…”),
offendesse ovviamente la sua sensibilità d’animo, la signora Pflaum
si lasciò quasi coinvolgere dal diluvio di facezie che gareggiavano a
superarsi in trivialità, di tanto in tanto le sfuggiva persino un timido,
imbarazzato sorriso – lo scroscio di risa era così impetuoso che
risultava difficile sottrarsi – quando un commento suonava più
divertente. Con molta circospezione, azzardò occhiate fulminee
intorno, non verso gli immediati vicini, non se la sentiva ancora, ma
ai dirimpettai più distanti, e constatando la sciocca allegria di quella
grottesca atmosfera si impegnò a tenere a freno la fervida
immaginazione stimolata dall’ansia – in fondo l’ambiente del vagone,
pur spaventoso con quegli uomini che si battevano le mani sulle
cosce e quelle donne senza età che prorompevano in scroscianti
risate a bocca aperta, visto così, sembrava meno pericoloso di prima
–, si convinse fosse meglio non pensare troppo alle minacce latenti
in quella brutta massa di rozzi bifolchi (secondo la sua opinione),
cercando di trattenersi dall’immaginare il peggio e cercando di
persuadersi che grazie alla spiccata sensibilità per i piccoli segni
premonitori e alla freddezza mantenuta nell’ambiente ostile, sebbene
totalmente stremata dalla tensione per la costante vigilanza, sarebbe
giunta a casa sana e salva. A dire il vero, le ragioni per sperare in un
epilogo fortunato non erano così fondate, ma la signora Pflaum non
poteva più resistere alla piacevole tentazione dell’ottimismo: il treno
era di nuovo bloccato nella piatta landa deserta da parecchi minuti,
in attesa di una luce per l’autorizzazione alla partenza – “Ma almeno
un pezzo di strada l’abbiamo fatto,” si disse –, e quando le frenate
accompagnate da stridori metallici e interminabili attese si
succedettero – purtroppo – frequentemente, riuscì a domare la
nervosa impazienza, dicendosi che in quel piacevole tepore – il
riscaldamento acceso alla partenza funzionava a pieno regime –
poteva almeno levarsi la pelliccia, e per il momento smettere di
preoccuparsi del freddo che avrebbe patito dopo, giunta a
destinazione, nel vento gelido. Sistemò le pieghe della pelliccia sulla
schiena, posò sulle ginocchia la stola di finto pelo, incrociò le mani
sulla borsa gonfiata dallo scialle di lana arrotolato all’interno, e con la
schiena sempre rigida guardò di nuovo fuori dal finestrino, finché
all’improvviso si accorse, avendone scorto il riflesso sul vetro
sudicio, che di fronte a lei sedeva un uomo “particolarmente
taciturno”, con la barba incolta: stava sorseggiando una grappa
puzzolente e posando gli occhi (“Pieni di concupiscenza!!”) sui suoi
seni, forse – ora coperti solo dalla camicetta e dalla giacca del
completo – troppo esuberanti e troppo prosperosi. “Lo sapevo!” girò
la testa di scatto veloce come un fulmine, e pur sentendosi
avvampare di un calore fortissimo finse indifferenza. Per lunghi
minuti evitò nuovi movimenti, fissò come cieca il buio là fuori
cercando invano di ricordare l’aspetto dell’uomo visto di sfuggita con
quell’occhiata casuale (le era rimasta impressa solo la barba incolta,
il cappotto “piuttosto sporco” e… il modo ripugnante, sornione, molto
eloquente, di osservarla che l’aveva fatta inorridire…), poi lasciò
scivolare lo sguardo sul vetro molto lentamente – forse illudendosi
che il pericolo fosse cessato –, ma lo distolse quasi subito perché
“quello là”, oltre a insistere “nei suoi modi oltraggiosi”, aveva persino
incrociato per un istante le sue pupille. A forza di tenere la testa
ferma così rigida, cominciò ad accusare dolori alle spalle, al collo,
alla nuca, ma dopo quell’ultimo episodio, anche volendo, non
sarebbe più riuscita a guardare altrove: sapeva che nel momento in
cui avesse abbandonato quella stretta fetta di buio nel finestrino, lo
sguardo spavaldo e risoluto che dominava ogni settore del vagone
“l’avrebbe immediatamente fatta prigioniera”. “Quanto mi avrà
guardata?” pensò la signora Pflaum lacerata dal dubbio, e
l’eventualità che le sordide attenzioni dell’uomo “si fossero posate su
di lei” all’inizio del viaggio rendeva ancor più terrificante lo sguardo di
cui aveva perfettamente inteso il significato, pur avendolo incrociato
solo per un istante. Erano occhi che tradivano una “lubrica lussuria”
da dare il voltastomaco, “anzi peggio!” trasalì, “ardevano di un secco
disprezzo”. Pur non definendosi “esattamente” anziana, sapeva di
aver superato l’età in cui quel genere di attenzioni – peraltro
terribilmente volgari – potevano essere naturali, quindi, oltre al
pensiero dell’uomo nauseabondo (“Che razza di individuo può
essere uno che prova certi desideri per signore non più giovani?”)
ebbe un brivido di orrore: quel mascalzone che puzzava di grappa
forse voleva prendersi gioco di lei, umiliarla e disonorarla, per poi
gettarla via sghignazzando, “come uno straccio”. Dopo alcuni faticosi
scossoni il treno riprese velocità, le ruote stridevano selvagge sui
binari, lei provava un senso di vergogna confuso, cocente,
dimenticato da lunghi anni, mentre quello sguardo violento, indomito,
insisteva nel fissarla come un raggio infuocato… le sue pesanti
mammelle ardevano… di un bruciore… insopportabile. Le braccia,
con le quali avrebbe potuto almeno coprirsi un po’, sembravano
incapaci di recepire gli ordini della volontà: e come una donna alla
gogna che nulla può fare contro la propria umiliazione, si sentì
sempre più nuda, indifesa, impotente di fronte a un’incontrovertibile
verità… se avesse tentato di nascondere le forme esuberanti della
sua femminilità… le avrebbe esibite ancora di più. I giocatori di carte
finirono una partita tra rozzi alterchi; lei avrebbe potuto finalmente
approfittare dell’occasione, quel chiasso spezzava la paralizzante
monotonia del mormorio ostile – un minuscolo spiraglio di libertà per
la sua volontà imprigionata –, per superare lo sconcerto di quella
malaugurata scoperta, ma nel frattempo accadde un incidente ben
peggiore, per coronare – pensò disperata – la serie delle sue
sventure. Poco prima, spinta da un istintivo senso del pudore, aveva
tentato di nascondersi i seni con un gesto meccanico, e si era
accorta con orrore che mentre abbassava cauta la testa e curvava la
schiena, lasciando cadere le spalle in avanti, il reggiseno, dietro, si
era sganciato. Alzò lo sguardo spaventata, e non si stupì di avere
ancora addosso gli occhi di quell’uomo, il quale – come se avesse
intuito l’umiliante disgrazia – le strizzò l’occhiolino con aria complice.
La signora Pflaum capì perfettamente la situazione, ma il fatale
incidente la mise in un tale imbarazzo che restò come pietrificata
dall’orrore, e nel frastuono dei sussulti irregolari del treno che
procedeva sempre più lesto, fu di nuovo costretta a subire inerme,
paonazza di vergogna, quegli occhi maliziosi e disgustosamente
sicuri di sé incollati alle sue mammelle, le quali, ormai libere dalla
morsa del reggiseno e scosse dai sobbalzi della carrozza,
sussultavano allegramente su e giù. Non osava alzare lo sguardo
per accertarsene, ma ne era sicura: l’uomo non era il solo, ormai
anche gli altri “ripugnanti contadini” avevano capito il suo calvario, le
sembrava di vederle, quelle facce deformi, avide, sogghignanti, che
si stringevano e si chinavano a cerchio su di lei… l’umiliante
sofferenza avrebbe potuto durare all’infinito se non fosse entrato il
controllore – un giovanotto con il viso da adolescente cosparso di
brufoli –, che proveniva dal vagone di coda; la voce urlante del
ragazzo (“Biglietti, per favore!”) la liberò dalla trappola della
vergogna, prese veloce il biglietto dalla borsa e incrociò le braccia
sotto i seni. Il treno si fermò di nuovo, stavolta in un luogo
appropriato, e quando lesse meccanicamente il nome del villaggio
sopra il tetto della stazione illuminato da un fioco chiarore – per non
vedere quei visi ormai davvero spaventosi – avrebbe voluto urlare di
gioia, poiché sapeva dall’orario ferroviario – lo sfogliava comunque
prima di ogni viaggio pur conoscendolo a memoria – che ormai
mancavano pochi minuti al capoluogo della contea e una volta
arrivati lì (“Deve scendere! Sì, deve scendere per forza lì!” pensò per
infondersi coraggio) si sarebbe sicuramente liberata del persecutore.
Guardò con spasmodica trepidazione il controllore che si avvicinava
lentamente, frenato dalle domande beffarde sulle cause del ritardo, e
pur essendosi decisa a chiedergli aiuto, non appena si vide davanti
quel viso bambinesco spaventato dalla folla chiassosa, così lontano
dall’immagine rassicurante dell’autorità pubblica, riuscì solo a
chiedere confusa dove si trovava il bagno. “E dove dovrebbe
essere?” rispose nervoso il ragazzo, bucandole il biglietto. “Dove
sono di solito. Uno in testa, e uno in coda.

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