L’orologiaio di Everton- Georges Simenon

SINTESI DEL LIBRO:

 «Fino alla mezzanotte, forse anche fino all’una, Dave
Galloway seguì la solita routine di tutte le sere, o, più
esattamente, della sera del sabato, che differiva un po’ da
quella degli altri giorni.
Forse l’avrebbe vissuta in modo diverso, forse avrebbe
cercato di godersela più intensamente, se avesse saputo che
era la sua ultima sera da uomo felice... A quell’interrogativo,
e a molti altri – per esempio se fosse mai stato davvero felice
– gli sarebbe toccato in seguito sforzarsi di dare una
risposta.
Per il momento era ancora all’oscuro di tutto, e si limitava
a vivere senza fretta, senza problemi, senza esserne neppure
appieno cosciente, ore così uguali l’una all’altra da indurlo
quasi a credere di averle già vissute.
Raramente chiudeva il negozio alle sei in punto. Di solito
lasciava passare qualche minuto prima di alzarsi dal tavolo
di lavoro, davanti al quale gli orologi in riparazione erano
appesi a piccoli ganci, e di togliersi dall’orbita destra la lente
montata in ebanite nera che teneva incastrata quasi tutto il
giorno come un monocolo. Forse, dopo tanti anni, aveva
ancora la sensazione di lavorare sotto un padrone e temeva
di mostrarsi avaro del proprio tempo...
La signora Pinch, che gestiva lì accanto un’agenzia
immobiliare, chiudeva alle cinque precise; il barbiere, che
non voleva far tardi, serviva l’ultimo cliente alle cinque e
mezzo, e quando Galloway si apprestava a chiudere a sua
volta lo vedeva quasi sempre salire in macchina per
rincasare. Aveva una bella casa in collina, nel quartiere
residenziale, e tre bambini che andavano a scuola.
Per alcuni minuti, con i gesti precisi e un po’ lenti di chi è
abituato a maneggiare oggetti delicati e preziosi, Dave
Galloway tolse dalla vetrina orologi e gioielli e li rimise nella
cassaforte in fondo al negozio.
L’orologio più costoso non arrivava a cento dollari, e a quel
prezzo ce n’era uno soltanto. Gli altri valevano molto meno. I
gioielli, poi, erano solo placcati d’oro, con imitazioni di pietre
preziose. All’inizio aveva cercato di vendere anche anelli di
fidanzamento con diamante vero, un diamante di circa mezzo
carato, ma per quel genere di acquisti gli abitanti di Everton
preferivano andare a Poughkeepsie o addirittura a New
York, forse perché comprare a rate l’anello di fidanzamento
da un gioielliere che conoscevano li avrebbe messi in
imbarazzo.
Ripose in uno scomparto della cassaforte anche il
contenuto del registratore di cassa, si tolse il camice di tela
greggia, lo appese al gancio dietro la porta dell’armadio,
s’infilò la giacca e diede un’occhiata in giro per assicurarsi
che fosse tutto in ordine.
Era maggio; il sole splendeva ancora abbastanza alto nel
cielo di un tenue azzurro e per tutta la giornata non c’era
stato un alito di vento.
Chiusa la porta, Galloway uscì dal negozio e lanciò
istintivamente uno sguardo verso il cinema, il Colonial
Theatre, che teneva già accesa l’insegna al neon benché
fosse ancora pieno giorno. Era così ogni sabato, per via dello
spettacolo delle sette. Davanti al cinema vi era un prato con
alcuni tigli dai quali si levava un lieve stormir di fronde.
Fermo sulla soglia, Galloway si accese una sigaretta, una
delle cinque o sei che fumava quotidianamente, poi girò
senza premura intorno al lungo edificio che ospitava, a
livello della strada, diverse botteghe.
Abitava al primo piano, proprio sopra il suo negozio, ma
poiché questo non era comunicante con l’appartamento,
doveva svoltare a sinistra dopo la bottega del barbiere e
passare da dietro, dove si trovava l’ingresso delle abitazioni.
Come quasi ogni sabato, nel pomeriggio suo figlio era
venuto ad avvertirlo che non sarebbe rientrato per cena.
Probabilmente avrebbe mangiato un hot dog o un panino da
qualche parte, quasi di sicuro al Mack’s Lunch.
Galloway salì la scala, girò la chiave nella toppa e andò
subito ad aprire la finestra. La vista era pressappoco la
stessa che si godeva dal suo banco di lavoro, con gli stessi
alberi e l’insegna del cinema le cui luci, in pieno sole,
avevano qualcosa di assurdo, d’inquietante quasi.
Compiva ogni giorno gli stessi gesti, nello stesso ordine,
senza rendersene nemmeno più conto, e forse era proprio
questo a conferirgli un aspetto così tranquillo e rassicurante.
In cucina ogni cosa era al suo posto; prima di scendere
lavava sempre i piatti del pranzo. Sapeva che avrebbe
trovato della carne fredda in un punto ben preciso del
frigorifero, e maneggiava gli oggetti come per incanto: in
pochi minuti il suo posto a tavola fu pronto, con il bicchiere
d’acqua, il pane, il burro e l’acqua per il caffè che
cominciava a bollire sul fuoco.
Quando era solo mangiava leggendo, ma questo non gli
impediva di sentire il cinguettio degli uccelli sugli alberi né
l’avviamento del motore di un’auto che gli pareva di
riconoscere. Dal suo posto poteva vedere anche i ragazzini
che cominciavano a dirigersi verso il cinema, dove sarebbero
entrati solo all’ultimo minuto.
Assaporò il caffè a piccoli sorsi, lavò piatto e posate,
raccolse le briciole di pane. Gli stessi gesti di sempre,
insomma, finché, poco prima delle sette, uscito di casa,
salutò il garagista che stava andando al cinema con la
moglie.
Scorse da lontano un gruppo di giovani in mezzo ai quali
non riconobbe Ben, ma evitò di cercarlo, ben sapendo che al
ragazzo non piaceva che lui avesse l’aria di controllarlo.
Del resto, non si trattava di controllo, Ben lo sapeva. Se a
volte suo padre faceva in modo di vederlo, non era certo per
sindacare il suo comportamento, ma solo per il piacere di un
contatto, sia pure a distanza. Questo un ragazzo di sedici
anni non può capirlo, ed era logico che, quando si trovava
con i suoi amici e le sue amiche, Ben preferisse che il padre
non fosse lì a tenergli gli occhi addosso. Non ne avevano mai
parlato in modo esplicito; Galloway lo intuiva,
semplicemente, e non insisteva.
L’edificio in cui si trovavano il negozio e l’appartamento
era quasi all’angolo di Main Street; Galloway vi si inoltrò,
passò davanti al drugstore che restava aperto fino alle nove,
quindi davanti alle colonne bianche dell’ufficio postale e al
giornalaio. Gli automobilisti di passaggio rallentavano
appena, anzi, alcuni non rallentavano affatto, come se non
sapessero di attraversare un centro abitato.
Superato il distributore di benzina, dopo aver percorso
circa un quarto di miglio, Galloway girò a destra in una
strada fiancheggiata da alberi dove le case, tutte bianche,
erano circondate da praticelli. La strada era senza uscita e le
uniche automobili che vi si vedevano appartenevano ai
residenti. Le finestre erano tutte quante aperte, i bambini
giocavano ancora fuori e alcuni uomini senza giacca, le
maniche della camicia arrotolate, tagliavano il prato con i
tosaerba a motore.
Ogni anno portava con sé, alla stessa epoca, le stesse
serate, di una dolcezza quasi opprimente, insieme al ronzio
dei tosaerba, e ogni autunno il rumore dei rastrelli sulle
foglie morte e il loro odore quando venivano bruciate, la
sera, davanti alle case, e più tardi ancora, fatalmente, il
raschiare delle pale sulla neve gelata.
Di tanto in tanto, con un cenno della mano o con la voce,
Galloway rispondeva a un saluto.
Usciva anche il martedì sera per recarsi in municipio, dove
si svolgeva la riunione settimanale del comitato scolastico di
cui era segretario.
Gli altri giorni, con l’eccezione del sabato, se ne stava
perlopiù in casa, a leggere o a guardare la televisione.
Il sabato sera era consacrato a Musak, che di certo lo stava
già aspettando seduto su una delle sedie a dondolo della
veranda.

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