La donna che vestiva di rosso: I casi dell’ispettore Lynley – Elizabeth George

SINTESI DEL LIBRO:
Trovò il corpo nel quarantatreesimo giorno del suo vagabondaggio. Era già la
fine di aprile, benché lui non se ne rendesse quasi conto: se fosse stato in
grado di notare quello che lo circondava, lo avrebbe capito dalla vegetazione
lungo la costa. Si era messo in cammino quando l'unico segno del risveglio
della vita era la promessa di boccioli gialli delle rare ginestre che crescevano
sulle cime delle scogliere. Ma ad aprile la ginestra era carica di fiori e presto
la digitale avrebbe fatto capolino dai cigli delle strade, la piantaggine avrebbe
mostrato le corolle rigogliose tra le siepi e i muri a secco che da quelle parti
dividevano i poderi. Tutto ciò rappresentava il futuro e lui, in quei giorni che
si erano trasformati in settimane, aveva camminato sforzandosi di evitare sia
il pensiero del futuro che il ricordo del passato.
Con sé non portava praticamente nulla: un vecchio sacco a pelo, uno
zaino con un po' di cibo, di cui si riforniva quando si ricordava, e una
bottiglia che riempiva d'acqua il mattino, se c'era acqua vicino a dove aveva
dormito. In quanto al resto, lo aveva addosso: una giacca di tela cerata, un
cappello, una camicia sbrindellata, un paio di pantaloni, scarponi, calzini,
biancheria. Era uscito per camminare senza alcuna preparazione e incurante
di averne: sapeva solo che doveva camminare o restare a casa a dormire. E se
fosse rimasto a casa a dormire, prima o poi avrebbe fatto in modo di non
svegliarsi più. Così camminò, perché non aveva alternative. Si inerpicò sulle
ripide scogliere, col vento che gli sferzava il viso e l'aria carica di sale che gli
seccava la pelle, attraversò incespicando spiagge di sabbia e sassi dove la
bassa marea faceva affiorare gli scogli, il fiato corto, la pioggia che gli
inzuppava le gambe, le pietre che premevano contro le suole... Quelle cose gli
ricordavano che era vivo e che doveva restarlo.
Aveva quindi ingaggiato una sfida con il fato: se sopravviveva a quel
vagabondaggio, allora voleva dire che così era scritto; altrimenti, la sua fine
era nelle mani degli dei... al plurale. Perché aveva deciso di non poter credere
all'esistenza di un solo Essere supremo che, digitando sulla tastiera di un
computer divino, inseriva questo o cancellava per sempre quest'altro.
La sua famiglia lo aveva pregato di non andare, visto in che stato si
trovava, anche se, come avveniva per la maggior parte delle famiglie della
sua classe, nessuno vi aveva fatto cenno apertamente. Sua madre aveva solo
detto: «Ti prego, caro, non farlo». Il fratello, pallido in viso e con la minaccia
di un'altra ricaduta sospesa sulla sua testa e su quella di tutti loro, aveva
suggerito: «Lascia che venga con te». E la sorella, cingendogli la vita con un
braccio, aveva mormorato: «Lo supererai, vedrai». Ma nessuno di loro aveva
fatto il nome di lei, né aveva pronunciato quella parola, terribile, eterna,
definitiva.
E nemmeno lui l'aveva fatto, non aveva esternato altro che il suo bisogno
di camminare.
Il quarantatreesimo giorno era cominciato come i quarantadue che
l'avevano preceduto: si era svegliato dove si era addormentato la sera prima,
senza avere la minima idea di dove si trovasse, se non in qualche punto del
South-West Coast Path. Era uscito dal sacco a pelo, si era infilato giacca e
scarponi, aveva bevuto quel che restava dell'acqua e si era messo in marcia. A
metà pomeriggio il tempo, che era rimasto incerto per tutto il giorno, si era
finalmente deciso, e nuvole nere si erano ammassate in cielo con la promessa
di un temporale. Si arrampicò lottando contro il vento, salendo da una piccola
cala dove si era fermato quasi un'ora a riposarsi e a guardare le onde che si
frangevano sui larghi spuntoni di ardesia. Stava salendo la marea e lui l'aveva
notato. Doveva andare in alto e doveva anche cercarsi un riparo.
Arrivato quasi in cima alla scogliera, si sedette senza fiato, stupito che le
interminabili camminate di quei giorni non avessero aumentato la sua
resistenza. Sentì uno stimolo, che riconobbe come fame, e allora prese dallo
zaino l'ultima salsiccia secca che aveva comprato quando era arrivato a un
villaggio lungo la strada. La mangiò tutta e si rese conto di avere sete, così si
alzò in piedi per vedere se nelle vicinanze ci fosse qualcosa che assomigliava
a un'abitazione, un villaggio, un capanno da pesca, una casa di vacanze o una
fattoria.
Non c'era niente ma la sete era una buona cosa, pensò rassegnato. La sete
era come i sassi appuntiti che gli premevano contro la suola delle scarpe,
come il vento, come la pioggia. Lo costringeva a ricordare, solo quando era
necessario.
Si voltò di nuovo verso il mare e vide un surfista solitario poco oltre la
linea dove si frangevano le onde. Data la stagione, la figura era avvolta da
una muta di neoprene nera: l'unico modo per potersi divertire con quell'acqua
gelida.
Lui non sapeva niente di surf, ma era in grado di riconoscere un cenobita
come lui. Non c'entrava niente il bisogno di meditare, semplicemente
entrambi erano soli in posti dove non avrebbero dovuto esserlo. Ed erano soli
in condizioni poco adatte a quanto cercavano di fare. Nel suo caso la pioggia,
che certo di lì a pochi minuti sarebbe caduta, gli avrebbe reso il cammino più
pericoloso e arduo. Per il surfista, gli scogli che affioravano dall'acqua
portavano a interrogarsi sul perché stesse facendo surf.
In quanto a lui, non aveva risposte e non gli interessava nemmeno
cercarne. Finita la magra colazione, riprese il cammino. In quella parte della
costa le rocce della scogliera si sgretolavano facilmente, a differenza del
punto da cui era partito: là erano costituite in gran parte da granito e, benché
erose dal tempo, dalle intemperie e dal mare, erano solide e ci si poteva
avventurare fin sull'orlo per guardare il mare o i gabbiani che cercavano i
pesci nelle fenditure. Qui, invece, il bordo della scogliera era una specie di
graniglia di ardesia, scisto e arenaria, mentre la base era segnata da mucchi di
detriti che cadevano regolarmente sulla spiaggia sottostante: avvicinarsi allo
strapiombo significava una caduta certa e una caduta significava fratture
multiple o morte.
In quel punto il sentiero era ben visibile e pianeggiante per qualche
centinaio di metri. Si allontanava dal bordo della scogliera, costeggiando un
pascolo cintato. Curvo per contrastare il vento, riprese ad avanzare. Si
accorse di avere la gola secca e un dolore sordo aveva cominciato a pulsargli
dietro gli occhi. Un senso di vertigine lo colse all'improvviso: disidratazione,
pensò. Non avrebbe fatto molta strada se non fosse riuscito a trovare
dell'acqua.
Un cavalcasiepe segnava il limitare del pascolo: lo scavalcò e si fermò, in
attesa che il paesaggio attorno a lui smettesse di ondeggiare il tempo
necessario per permettergli di trovare il sentiero e scendere nell'ennesima
cala. Aveva perso il conto delle insenature incontrate sul suo cammino e di
questa, come di tutte le altre, non conosceva il nome.
Passata la vertigine, scorse sotto di sé un cottage isolato sul limitare di un
ampio prato. Stava a duecento metri circa dalla spiaggia, accanto a un
ruscello. Un cottage significava acqua potabile e dunque si sarebbe diretto lì,
anche perché non richiedeva una deviazione troppo lunga dal sentiero.
Iniziò a scendere nell'istante in cui cominciavano a cadere le prime gocce
di pioggia; non portava il cappello, così si tolse lo zaino e lo tirò fuori. Stava
infilandoselo in testa (era un vecchio berretto da baseball di suo fratello, con
la scritta MARINER), quando scorse un lampo rosso. Guardò nella direzione da
cui gli era sembrato arrivare e lo vide alla base della scogliera che chiudeva
su un lato l'insenatura sotto di lui: qualcosa di rosso allungato su una lastra di
ardesia.
Lo osservò attentamente. Da quella distanza poteva essere qualunque
cosa, dalla spazzatura a un capo di abbigliamento, ma il suo istinto gli diceva
che non era niente di tutto ciò. Benché sembrasse un mucchio informe
s'intuivano i contorni di un braccio teso, come a supplicare un invisibile
salvatore che non c'era e mai ci sarebbe stato.
Aspettò un minuto intero, contando i secondi a uno a uno, nell'inutile
attesa che si muovesse. Ciò non avvenne, e cominciò a scendere.
Stava cadendo una pioggia leggera quando Daidre Trahair svoltò nella
strada che portava a Polcare Cove. Azionò i tergicristalli e prese mentalmente
nota del fatto che prima o poi doveva sostituirli, meglio prima che poi,
sebbene si andasse verso l'estate. La fine di aprile era stata imprevedibile
come sempre e, anche se in Cornovaglia maggio era di norma un mese
gradevole, giugno poteva essere un incubo dal punto di vista climatico. Così
decise su due piedi che non poteva rimandare e cominciò a pensare a dove
poteva comprarli. Era contenta di quel diversivo mentale, perché le evitava di
fermarsi a considerare che alla fine di quel viaggio verso sud non provava
nulla: nessuna confusione, rabbia, sbigottimento. Né risentimento o
compassione, e nemmeno un pizzico di dolore.
L'assenza di dolore non la preoccupava: in tutta sincerità, nessuno
avrebbe preteso che ne provasse. Ma il resto... essere stati spogliati di tutte le
emozioni, quando la situazione ne richiedeva almeno un minimo... ecco cosa
la preoccupava. Le rammentava in parte quello che troppe volte aveva sentito
da troppi amanti. E in parte indicava una regressione a un suo modo di essere
che credeva di aver superato.
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