Succede ad Aleppo – Domenico Quirico

SINTESI DEL LIBRO:
L’attacco e la difesa di una città richiedono
molto talento e valore da parte di un generale,
oltre che una grande quantità di congegni.
Deve prendere infinite precauzioni,
e nascondere i suoi piani di attacco...
L’assediato conosce i pericoli che lo minacciano
e può trovare mezzi per opporvisi.
Onasandro, Strategikos, capitolo 23
Quando ha iniziato a morire Aleppo? Non lo so. Forse ha cominciato a
morire, e non ce ne siamo accorti, nel momento in cui sembrava ancora
viva e in tumulto. E invece la guerra era entrata in lei, lentamente,
subdolamente: già ne rodeva le viscere e i centri nervosi. Scriveva in
silenzio il capitolo della lentissima agonia, quando non sarebbe più stato
possibile tornare indietro, predisporre le cure. Nessuno di noi, testimoni,
lo sapeva. Nessuno degli abitanti di Aleppo, quelli che scendevano in
strada e quelli che li accusavano di essere ribelli e traditori, i soldati leali al
governo e quelli che simpatizzavano per l’Armata siriana libera, nel tempo
in cui si accontentavano di tentare di proteggere le manifestazioni dai
picchiatori del regime. Chi poteva intuirlo? Eppure...
Non ero ad Aleppo il 15 marzo del 2011, quando i primi sparuti cortei
di contestazione al governo di Bashar Assad cominciarono a sfilare,
timidamente, per le vie delle maggiori città.
E neppure il 18, quello che nei libri di Storia si chiamerà il venerdì della
dignità, quando i cortei si fecero via via più intrepidi e gli slogan più forti.
Era la primavera araba che correva, anche qui, sul filo delle immagini
televisive che rimbalzavano dal Cairo, da Tunisi e da Tripoli, con le
dittature sorelle di quella di Bashar che cadevano nella polvere,
scoperchiate dalle mani alzate e dagli sguardi decisi di folle di adolescenti.
Forse Aleppo ha cominciato a morire durante il Ramadan del 2011,
quando in città e a Damasco il regime decise di scatenare gli shabiha per
scagliarli contro coloro che avevano fama di oppositori, intimidirli e farli
sparire. Forse. È allora che la paura ha cominciato a scendere sulla città, a
dividerla in quartieri.
E poi... e poi il 3 maggio del 2012, in una spedizione punitiva
all’università, vennero massacrati quattro studenti. Fu l’avvio della
rivoluzione violenta e delle battaglie di strada tra gli uomini degli infiniti
Servizi di sicurezza e quella che ormai si chiamava l’Armata siriana libera,
formata da disertori e civili, soprattutto ragazzi.
Aleppo: che sapevo io di questa città e di questa rivoluzione? Entrarci
allora, nel luglio del 2012, con il mondo in tumulto, era la rivelazione
divina del tempo. La guerra devastava la Siria, città intere sparivano in
un’ora, popoli morivano sotto la vergogna, altri si sollevavano in questa
parte del mondo in nome della collera, i cadaveri diventavano migliaia, e
migliaia di uomini qui e altrove non pensavano ad altro che al modo
migliore per uccidere altri uomini.
Ad Aleppo, non lo immaginavo, quella sera l’angelo della morte regnava
come un padrone ancora sornione, cauto: ma già sapeva di avere la città in
pugno. Aspettava.
Che cosa c’era di diverso tra quel mio arrivo e quello dei viaggiatori di
un tempo, quando Aleppo era mito ed esotismo? Nulla. Apparentemente.
Aleppo rumoreggiava mentre la notte scendeva tiepida e quieta. La
cittadella specchiava l’ultimo riflesso sanguigno del tramonto e pareva un
fiume di luce tra le masse nere dei palazzi e delle case. Dall’alto dei
minareti sottili, intatti, rosati dal crepuscolo, scendeva sulle tenebre
tumultuose delle vie un canto strano e malinconico, insistente e
lamentoso come un pianto senza conforto e dolce come una preghiera.
Sembrava un addio al giorno che muore. Erano i muezzin che cantavano
la gloria di Allah.
Dagli edifici irregolari, cemento grigio e sporco, affastellati negli anni,
sporgevano in mille modi, sopra un intrico di mensole, di sostegni, i
balconi, prolungamento di case troppo piccole per famiglie troppo grandi.
C’erano ancora i mercati, allora. Ma forse confondo con qualche libro di
viaggio del primo Novecento: mi sembra di ricordare che i venditori
lanciassero ancora, coraggiosamente, gridi speciali, a cantilena, per
esaltare la propria merce. Forse ho comprato una camicia in un mercato.
Forse.
Nella città vecchia intravedevi da una porta socchiusa un cortile di
marmo, calmo e ridente. Un’antica fontana nel mezzo, vuota, asciutta,
priva del sussurro della sua secolare canzone d’acqua. Si scorgevano delle
donne che rapide si nascondevano. Un cortile di una moschea: sul suo
limite pareva che il tumulto della via si spegnesse. Gli archi arabi, eleganti
e snelli, correvano intorno, i ricchi marmi con la patina austera dell’età. I
fedeli immobili pregavano prostrati sul pavimento lucido per il passaggio
di piedi nudi che li specchiava.
Eppure... eppure c’era la guerra.
2.
Uomini
È con un esercizio giornaliero e condotto
a lungo che tutte le arti si perfezionano.
Se questa massima è vera per le piccole
cose, come non può esserlo per quelle
più importanti? E chi non sa che l’arte
della guerra è la più importante, la più grande
di tutte? È attraverso di lei che la libertà
si conserva, e la dignità di un popolo
si perpetua.
Flavio Vegezio, Istruzioni militari, libro III
Tutti sono stati plasmati dal conflitto e dal suo trauma; consciamente o
inconsciamente si sono rimodellati, hanno assunto un atteggiamento,
indossato una maschera, si sono lasciati compenetrare profondamente da
quella esperienza e ne sono usciti riconfigurati. Ma prima com’erano?
Cosa era Saleh prima di vendere l’automobile per potersi comprare un
mitra e combattere? Si sentiva un uomo come ora che lo mostra
orgoglioso, quasi fosse un figlio?
E cosa era Mudar che ti insegue, umilmente petulante, per mostrarti
come prova del suo coraggio, della sua nuova identità, un video sul
telefonino? E si vedono sequenze di battaglia, blindati che manovrano
sotto il fuoco dei lanciarazzi e poi cadaveri di soldati a terra, tutti
curiosamente senza scarpe («faceva un caldo tremendo, se l’erano tolte sui
pick-up e quando li abbiamo attaccati non hanno avuto il tempo...»)? La
voce che grida ossessivamente «Dio è grande» nel sonoro, roca e spezzata
dalla corsa e dall’emozione, è la sua. E forse erano così, un tempo, gli eroi
di Omero nella pianura di Ilio: mostravano lo scudo pieno di
ammaccature e ognuna era una vittoria.
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