L’ira funesta- Giovanni Ricciardi

SINTESI DEL LIBRO:

Dolcissimo amore mio,
vivo giorni difficili in cui è facile perdersi, lasciarsi portare dalle ossessioni, e
vedere e percepire l’abisso della mia fragilità. Tu mi richiami all’essere, sei il
mio tu ineludibile, potente come se fossi qui. E tocco con mano, forse per la
prima volta così chiaramente, il mio fondo: questa resistenza a essere amato
profondamente da qualcuno, mentre una voce dentro di me continua a farmi
sentire degno di disprezzo, degno di nulla. Anche di fronte ai “successi
mondani” sono uno che sempre ha pensato di rubare l’amore, che non se ne
sente degno. Ma in questi giorni, quando passo sotto la “finestra” della mia
Teresina, e so che è lì, trovo qualche sollievo e penso che le dovevo una
restituzione. Questa è l’unica vera consolazione che ho, oltre a te. Tu stessa, se
passerai da lì, potrai capire. Ma ora devi chiedere per me la grazia che io abbia
compassione di me stesso. Che sappia perdonare me stesso. E accettare, così
come vengono, queste febbri maltesi che sono parte del mio destino. Prima ero
il tuo Zweig, d’ora in poi sarò il tuo Roth.
L’uomo guardò le sue parole divenute corpo, un corpo 12 in Baskerville
Old Face, un font che indubbiamente le nobilitava. Ma ora che erano separate
dall’emozione che le aveva prodotte e restavano mute, sospese nella luce del
monitor, ferme, giustificate, ripulite dal correttore automatico, messe in
perfetto ordine, non più balbettanti e alate come quando uscivano dai meandri
dell’anima – dal recinto dei denti, avrebbe detto Omero – le trovò brutte,
banali, trite, piene di luoghi comuni, prevedibili e sconce nella loro falsità.
Eppure non cedette all’istinto di cancellarle. Aprì la finestra a tendina del
menu “file” del suo Mac e fu indeciso se scegliere semplicemente mela+S,
salva, o maiusc+mela+S, salva con nome. Che strana espressione, pensò.
Senza nome, non ci si può salvare.
Comunque sia, “salva” doveva essere una traduzione iperletterale
dell’inglese save; e save nel pratico linguaggio degli anglofoni ha piuttosto a
che fare col gergo di conservatori di cose antiche, salvaguardatori, custodi,
topi d’archivio. O di quegli uomini che non buttano via nulla e finiscono per
morire lasciando agli eredi il compito di svuotare case zeppe di ammennicoli
che hanno avuto senso in un dato momento, e solo per questo sono stati
salvati, in realtà temporaneamente sottratti alla distruzione e accumulati in
cassetti, mensole, scansie che nel tempo hanno accolto tutto, senza
distinzione, per null’altra ragione se non quella di esorcizzare la morte per via
d’accumulo. Fino a che tutto non sia disperso per sempre.
Salva con nome. Ma non scrisse il suo nome in calce alla lettera. E non
spedì quel testo a nessuno. Era ancora lì quando lo trovai e mi posi a spiare
quelle parole finali, le ultime di una vita bruciata in una fiamma rapidissima.
«Ottavio?».
Dicono che a Napoli, negli anni Trenta, ci fosse un commissario che
vedeva i morti. Ora, io non so bene se il fatto fosse vero e in che senso, ma un
amico mi ha raccontato questa storia: sembra che avesse la facoltà di
percepire, in ogni angolo della città, le sagome delle vittime di morte violenta
e riascoltare le loro ultime parole. Ecco, leggendo quelle righe, mi sembrava
di essere di fronte a una cosa così.
In realtà, l’architetto era morto da giorni. Tra la fine di aprile e i primi di
maggio il suo corpo si era lentamente irrigidito su una sedia, come se avesse
atteso troppo a lungo qualcuno che non era mai arrivato. Doveva essere solo
al mondo, o avere una famiglia distratta e divisa. Da quello che il
commissario Celiboni mi raccontava, era passato del tempo prima che i vicini
di casa s’accorgessero del cattivo odore che proveniva dall’appartamento
accanto. E neppure li si poteva rimproverare. L’architetto era morto nel suo
pied-à-terre, un loft che avrebbe ben figurato su una copertina di «Domus»,
ma che teneva quasi sempre chiuso e in cui dormiva ancora più di rado, a
sentir loro: buongiorno e buonasera frettolosi e rari, a volte in compagnia di
donne sconosciute e sempre diverse.

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