Il buio e il miele – Giovanni Arpino

SINTESI DEL LIBRO:
C’era un grosso moscone dorato che ronzava lungo la finestra
del pianerottolo, i muri odoravano di tinta fresca, con una virata
improvvisa il moscone mordendo felicemente l’aria individuò lo
spiraglio tra i vetri socchiusi, sparì. Mi affacciai anch’io per buttare la
cicca. Il cortile sotto era deserto, due magre spanne di cemento nel
sole di fine agosto. Più lontano, il verde consunto delle colline oltre il
fiume sfumava in un cielo opaco. Con le mani controllai la bustina
ben ferma sulla fronte, il nodo e la giusta caduta della cravatta,
prima di suonare.
La porta si aprì subito come se la donna fosse sempre stata lì
dietro in agguato.
Era una vecchina incredibilmente rosea, minuta, vestita di bianco
e di grigio, sorridendo ammiccando in tutte le sue graziosis- sime
rughe mi fece cenno d’entrare. Dietro a lei, il buio di un lungo
corridoio. Subito piegammo in cucina, due sedie già scostate
accanto al tavolo.
«E bravo bravo, proprio puntuale, ecco una cosa che fa piacere»
sospirò senza spegnere quel suo sorriso, annuendo, le mani
intrecciate.
Dissi il mio nome e con precauzione tenni la bustina in bilico su
un ginocchio.
«Ma è poco più di un ragazzo, santo Cielo» si contristò
socchiudendo le palpebre e mi sentii arrossire. «Chissà se un
ragazzo come lei avrà la pazienza che in questa occasione... Per
fermarsi qui: alla pazienza.»
Rimase in sospeso trattenendo il fiato, le labbra appena
dischiuse sui denti di resina.
Allora io dissi che in caserma il mio ufficiale m’aveva spiegato
ogni particolare.
Perso il sorriso annuì ancora, lisciandosi il dorso della mano
destra con le dita affilate della sinistra. Aveva mani bellissime,
trasparenti come carta velina, in ordine con lei, con quell’ambiente
immacolato, con i due fiori nel vaso sul tavolo.
«Studente, mi pare. Figlio unico?»
Le dissi qualcosa di mio padre impiegato, di mia madre e mia
sorella minore. Mentre cercavo le parole adatte quei tre volti familiari
uscirono un attimo dalla loro usuale nebbia per riacquattarvisi
morbidamente subito dopo. Precisai quindi la mia età , vent’anni, e la
facoltà universitaria cui ero iscritto, economia e commercio.
Avvertivo estranea la voce che mi usciva di bocca.
In risposta, il suo sospiro non fu di sollievo.
«Dei giovani d’oggi io conosco niente» disse infine
schermendosi. «E anche lui, lui di là , con tutta la sua gran disgrazia,
mica riesco a capirlo. Sarà la mia vecchiaia. E poi: serve a qualcosa
capire? Compatire, questo sì.»
Ma come punta da frenesia fu di nuovo in piedi e sorridendo, il
volto percorso da brevi mosse veloci: «C’è del caffè freddo, vuole?
Buono. O forse meglio un’aranciata? Non mi dica che non gradisce».
Ruotava su se stessa. Pensai: uno scoiattolo. Subito ebbi tra le
mani il bicchiere di caffè.
«Posso fumare?»
Rise quietamente: «Prego. Anche lui, una sigaretta via l’altra. Voi
uomini».
Accompagnò quel «lui» con un breve cenno delle dita all’altezza
delle spalle come a indicare le entità nascoste oltre il buio del
corridoio.
Si ricompose con le mani intrecciate per un ulteriore commento:
«Però tutto sommato lei dà l’impressione di un bravo figlio, sì, sì».
Restammo ancora a guardarci, io ben convinto a non porre per
primo nessunissima domanda.
Finché: «Io sono la zia» si decise riducendo la voce. «Lui dice
che sono soltanto una cugina, ma in effetti sarei come e più di una
zia, perché chi Pha accudita la sua povera mamma fino all’ultimo se
non io? Per sua fortuna è mancata prima di dover soffrire il peggio.
Poi tutto è stato così difficile, nessuno potrà mai averne idea. Fino al
giorno della disgrazia lo conoscevo poco, lui. Sempre stato in giro
per il mondo, collegi accademia caserme. Ma da allora ho dovuto
occuparmene io, si vede che così comandava il destino in Cielo. E
sono ormai nove anni, sa?»
Finii il caffè, rimasi con il bicchiere in mano. Il vetro era ancora
fresco.
«Nove anni» riprese in cantilena, quella sua voce sempre più
sottile, «oggi è niente, ma in principio: oh, non voglio neanche
ricordarlo il principio. Un giovane come lui, perdere gli occhi e una
mano. Così: solo perché Nostro Signore non vuole nessuno
contento a questo mondo. Alle manovre, giocando con una bomba.
Dico giocando perché cosa sono poi queste manovre al giorno
d’oggi? Dia a me quel bicchiere.»
«Il mio comandante mi ha spiegato» dissi.
Per darmi un tono fissavo le mattonelle del pavimento. Ogni
quattro formavano un disegno azzurro, una specie di arzigogolato
fiore su fondo bianco. Dalle tende trasparenti alla finestra la luce si
posava su quei fiori a raggera rilevandone l’esilità .
«Un uomo come lui» seguitava adagio via via raggrinzendo e
distendendo le rughe del volto. «Anche abbastanza ricco, sì. Lui
ricco, mica io. Lo straccio d’una pensione di vedova, io. Ma lui: ricco.
Neanche quarant’anni. Sano come un leone. E solo al mondo.»
Schiacciai accuratamente la cicca nel piattino che mi aveva
offerto come posacenere.
«Gli stia ben dietro in questi giorni, mi raccomando» disse
ancora. «Non deve mai lasciarlo solo. Lo sa, vero? E abbia
pazienza, figlio mio, tanta santa pazienza. Non lo contraddica, non
discuta per carità , gli dia sempre ragione, che lui parli o straparli.
L’unica salvezza è rispondergli sempre sì. Sì e sissignore. Capito?»
«Certo, signora.»
«Ciccio, il soldato che adesso è all’ospedale, il suo
accompagnatore fino a ieri l’altro, era un calabrese, un testone, però
buono, in certe cose anche con una sua furbizia. Subito aveva capito
di dover rispondere solo sì e sissignore. Anche Ciccio, però:
prendersi il tifo proprio in questi giorni, alla vigilia del viaggio. Le
sembra fortuna?»
«Anche nella nostra caserma ci sono stati tre casi di tifo» dissi,
subito accorgendomi del suo disinteresse.
Gli occhi acquosi mi guardavano ma come alla ricerca di
un’immagine al di là di me.
Ritrovando appena un filo di voce azzardò: «Cattivo è una parola
grossa, e io non vorrei proprio chiamarlo cattivo, però è fatto di una
materia tutta sua, niente da spartire con la gente come noi. Il gran
male patito, già . Un pochino era così anche prima della disgrazia,
Dio, sa quanto ha sofferto sua madre allevandolo. E poi: il dolore.
Ma queste sono confidente, eh figliolo?»
«Grazie, signora.»
Seguitava a guardarmi con lampi di tenerezza e poi di subita
diffidenza, posò il bicchiere, lisciò e rilisciò accuratamente i polsini
dell’abito, le dita leggere nel distendere invisibili pieghe.
Forse temeva d’aver parlato troppo.
Infatti: «Per lei in fin dei conti è anche una bella vacanza» volle
aggiungere deviando lo sguardo «cinque più due come dite,
insomma è già qualcosa una settimana di viaggio. Fino a Napoli e
niente caserma».
Aveva ragione, perciò cercai di spiccicare ancora una frase
rassicurante.
«Bene bene» interruppe con improvvisa malinconia «adesso
vada, è meglio. Subito lì fuori ci sono le pezzuole di panno. Per la
cera. Con quelle vostre scarpacce militari. È la porta in fondo al
corridoio. Ma prima bussi. Sempre prima bussare, con lui. Io: sarÃ
bene che resti qui. Dio mi perdoni, mi scappa sempre troppo da
questa lingua.»
M’aveva già escluso dalla sua orbita. Con un gomito puntato sul
tavolo ora rimirava i due fiori nel vaso, i polpastrelli della mano
destra avanzati a sfiorare e controllare petalo dopo petalo.
«E mai dirgli capitano, solo e sempre signore» avvertì ancora nel
vuoto, senza guardarmi.
«Ti chiamerò Ciccio. Ti piace? Vi ho sempre chiamati tutti così. O
non ti va? Ti sembra un nome da cane? Se non ti va dillo. Di’ pure.»
M’aveva fatto sedere e la sua faccia crivellata era a meno di un
metro da me. Gli occhiali scuri che salivano fino alle tempie e la
mano sinistra rigida inguantata mandavano deboli riflessi nella
penombra. Il sorriso scattava pronto, cancellando di colpo l’effetto di
quel volto che solo tra l’attaccatura dei capelli e la linea degli occhiali
appariva liscio, pallidissimo.
Dalla finestra, oltre la tenda, premevano deboli rumori di strada.
«Caldo? Bevuto qualcosa di là ? Parla. Sei o no studente? E
allora chiacchiera.»
Finì ridendo.
«Sì signore» dissi.
La mano destra avanzò fino al tavolo che ci divideva, prese una
sigaretta dall’astuccio. Prima che riuscissi ad accendere il mio
fiammifero, rapidamente quelle dita si mossero fino a percepire la
distanza tra le labbra e l’estremità della sigaretta, diedero fuoco a un
accendino, lo spensero e come elengatissime elitre ricaddero per
chiudersi sulla mano inguantata in grembo.
«Cammini? Sai camminare? Ho avuto un certo Ciccio l’anno
scorso che non sapeva assolutamente. Negato. Dopo un’ora giÃ
sbuffava. E io invece ho molto bisogno di camminare. Fiaccherei un
cavallo. Voi credete di sapervi muovere ma messi alla prova: uno
strazio» rise ancora alitando fumo.
«Cammino sì. In caserma...»
«Niente cretinerie di caserma» interruppe alzando la mano.
«Oppure sì? Dimmi dimmi.»
«Era una cosa senza importanza» ripiegai.
Si rovesciò dando sfogo alla risata finché la tosse non lo
costrinse a rimettersi in posizione sul divano. Con un fazzoletto
asciugò gli angoli della bocca.
«Magnifico» disse poi a denti scoperti «abbiamo un Ciccio che
pensa. Un Ciccio avveduto. Già , uno studente. Ne ho avuto un altro,
tempo fa. Filosofia: una vera piaga. Tu non sembri una piaga.
Scommetto che lo sai d’essere furbo.»
«Non sempre, signore» mi parve di dover rispondere.
«Capricorno?»
«No. Acquario» dissi.
S’arricciò in una smorfia.
«Acquario anche tu. Questo non funziona. Due acquariani tra di
loro fanno brutte scintille. Non voglio sapere la decade. Per nessuna
ragione al mondo. Tappati la bocca e non lasciarti mai scappare la
tua decade.»
«Bene» risposi.
Tossì debolmente: «Acquariano. Piemontese. Economia e
commercio nientemeno. E dato che sei qui: umanitario, già . Non ti
capisco, Ciccio. Ma perché dovrei anche capirti? Vero che non
abbiamo nessun obbligo reciproco di capire? Per una settimana,
cinque più due: basta sapersi tollerare. E camminare trottando.
Giusto?»
«Giusto »
«E invece no» reagì trionfalmente. «Vedrai che razza di
specialissimo no. E tuttavia domani: alle sette. Qui. Quindi stazione,
poi Genova Roma Napoli. Conosci?»
«Non Napoli.»
«Toh.
Finalmente
accompagneremo questo acquariano
economia e commercio in un posto nuovo. Cominciavo a disperare»
sorrise dietro la sigaretta addentata.
Ogni tanto gli si incrinava la voce in segmenti più aguzzi di
sillabe e accenti.
«Non sapevo che ci saremmo fermati a Genova e Roma. Se ho
ben capito» avanzai.
«Ci fermeremo? E chi ha detto che ci fermeremo? Se ne avrò
voglia. Se qualche pallino comanda. Per camminare e altri sollazzi.
Cinque giorni più due: o t’importa come li spendi? Volevi rubacchiare
qualcosa sul totale? Ci sono puttanelle che aspettano? Dimmi
dimmi.
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