I miei giorni nel Caucaso – Banine

SINTESI DEL LIBRO:
Al contrario di certe degne persone, nate in famiglie povere ma “a
posto”, io sono nata in una famiglia per niente “a posto”, ma molto
ricca. Di una ricchezza che costituirebbe uno scandalo, se non fosse
per il deplorevole ma giusto fatto che ha smesso di essere ricca
ormai da molti anni. «E perché non era “a posto”?» forse mi si
domanderà gentilmente, perché questo presupporrebbe un certo
interesse per la mia persona. Ebbene, perché, da una parte, si può
solo far risalire la genealogia dei miei antenati al mio bisnonno che
aveva il bel nome di Assadullah, che significa «amato da Allah»;
nome predestinato poiché, nato contadino, il mio antenato morì
milionario grazie al petrolio zampillato dal suo campo pieno di sassi,
in mezzo ai quali brucavano – chissà cosa – le pecore. E, dall’altra
parte, perché la mia famiglia annoverava membri estremamente
loschi, sull’attività dei quali sarebbe preferibile non dilungarsi. Se nel
corso di questa narrazione riuscirò ad accalorarmi, forse parlerò più
a lungo di loro, cosa che desidero in quanto autrice ma disapprovo in
quanto depositaria di un infimo residuo di orgoglio familiare.
Capitai dunque in questa famiglia strana, esotica e ricca un
giorno d’inverno di un anno movimentato, pieno come molti altri anni
cosiddetti storici di scioperi, di pogrom, di massacri e di diverse altre
manifestazioni del genio umano, così particolarmente inventivo per
tutte le perturbazioni sociali1. A Baku la maggior parte della
popolazione, composta di armeni e di azeri, era attivamente
occupata a massacrarsi. Quell’anno gli armeni, meglio organizzati,
sterminavano gli azeri per vendicarsi di massacri passati; da parte
loro gli azeri, in mancanza di meglio, vi attingevano ragioni per
massacri futuri. Così tutti vi trovavano il loro tornaconto, eccetto
quelli, purtroppo numerosi, che morivano nel corso di questi eventi.
Nessuno mi avrebbe creduta già capace di prendere parte
all’opera di distruzione; eppure lo ero, poiché venendo al mondo
uccisi mia madre. Per sfuggire ai massacri andò a partorire in una
periferia petrolifera, dove pensava di trovare maggior tranquillità. Ma
a quel tempo era tutto così disorganizzato che partorì nelle peggiori
condizioni, e contrasse la febbre puerperale. Una violenta tempesta
isolò la casa da ogni soccorso esterno e questo aumentò
ulteriormente il disordine in cui eravamo precipitati. Privata delle
complesse cure richieste dalle sue condizioni, mia madre lottò
invano contro la malattia. Morì in piena lucidità, rimpiangendo una
vita che lasciava troppo giovane e interrogandosi angosciosamente
sulla sorte dei suoi.
Nacqui dunque fisicamente in quel momento, ma mi ci vollero
ancora molti anni prima di nascere alla vita cosciente. Questa vita mi
fu rivelata da giocattoli berlinesi portati da mio padre; percepii per la
prima volta il mondo attraverso il ventre sonoro di un gatto di
peluche, la rutilante bellezza di un maharajah che cavalcava un
elefante di pelle scamosciata grigia, le riverenze di un pagliaccio
multicolore. Percepii tutto ciò e sentii, e mi meravigliai, e cominciai a
vivere.
La mia tenera infanzia fu delle più felici; in quel momento la
giovanissima età, rispetto a quella delle mie tre sorelle maggiori, mi
dava ogni sorta di prerogative di cui sapevo approfittare; ma lo fu
soprattutto perché venni allevata da una santa donna (il termine non
è eccessivo), una tedesca baltica – governante, madre, angelo
custode – che ci donò la sua salute, la sua vita e si logorò con noi
fino all’ultimo nervo; che da noi ebbe ogni sorta di delusione e poche
gioie; che si sacrificò sempre e non chiese nulla in cambio. In una
parola, era una di quelle rare creature che sanno dare senza
ricevere.
Fräulein Anna aveva la pelle candida e capelli di lino; noi quattro
eravamo brune di pelle, nere di capelli, pelose e dall’aspetto molto
orientale. Perciò, quando nelle fotografie le stavamo attorno, lei
totalmente nordica, noi con tutti i nostri nasi arcuati e tutte le nostre
sopracciglia congiunte, facevamo un bell’insieme. E devo dire che a
quei tempi ci si fotografava molto (nonostante la proibizione del
Profeta, nemico delle immagini), con indosso i più bei fronzoli e a
fianco del maggior numero possibile di parenti, il tutto sullo sfondo di
un parco dipinto. Mania inoffensiva che si spiegava con la novità
della cosa per i quasi-primitivi quali eravamo allora; mania a cui devo
alcune immagini esilaranti e toccanti che conservo con cura.
Ma torniamo a Fräulein Anna. Il fatto che, circondata da una
famiglia musulmana fanatica, in una villa ancora tutta orientale,
sapesse creare e mantenere un’atmosfera di Vergissmeinicht, di
canzoncine dolci per bimbi biondi, di alberi di Natale con angioletti
rosa, di torte rigonfie di crema e di sentimentalismo, dimostra che,
nonostante la sua dolcezza, aveva una personalità e, nonostante la
sua arrendevolezza, aveva una volontà. È vero che a quell’epoca
non era ancora logorata da noi e poteva difendersi meglio contro un
ambiente che doveva sembrarle o anche esserle ostile. La sua
influenza era costantemente controbilanciata da quella della nostra
nonna paterna, che abitava al pianterreno della nostra casa. Era una
donna grande e grossa e autoritaria e viveva lì, di preferenza seduta
per terra sui cuscini, come ogni buona musulmana. Velata e fanatica
oltre ogni dire, eseguiva con infallibile rigore le abluzioni e le
preghiere ed esecrava i cristiani con esaltazione. Se capitava che le
stoviglie venissero toccate da mani non musulmane, mia nonna non
se ne serviva più e le dava a qualcuno meno sprezzante di lei.
Frequentemente, se uno straniero dalla pelle bianca le passava
accanto, sputava per terra e gli urlava qualche ingiuria, la più dolce
delle quali era «figlio di cane». Di conseguenza, la disgustavamo un
po’ anche noi nipoti, allevate da cristiani; tanti contatti, tante carezze
di mani profane finivano per impregnarci di un sottile odore empio e i
suoi baci, ancorché affettuosi, erano spesso accompagnati da una
smorfia di disgusto. Fosse dipeso da lei non saremmo mai state
affidate a Fräulein Anna, e posso immaginare le faticose battaglie
che avrà dovuto affrontare mio padre per farle accettare questa
educazione eretica. Ma i russi ci avevano colonizzati ormai da
tempo; la loro influenza s’infiltrava dappertutto e, con essa, il
desiderio di cultura, di europeizzazione. Per le giovani generazioni si
cominciavano a preferire la libertà al velo, l’istruzione al fanatismo.
Avendoci dunque deposte tra le bianche mani di Fräulein Anna
con una fiducia mai rimpianta, mio padre non si occupò più molto di
noi. D’altronde viaggiava di continuo perché, in qualità di figlio
maggiore, gestiva la nostra azienda petrolifera che aveva depositi e
uffici scaglionati lungo il Mar Caspio e il Volga, era fiorente a Mosca
con una importante filiale e si spingeva fino a Varsavia. Arrivato fin
là, grazie alla velocità acquisita, mio padre non poteva più fermarsi,
dato che, per uno abituato alle distanze russe, Berlino era
vicinissima; perciò faceva spesso un salto fino alla capitale tedesca.
La Germania di prima della guerra del 1914 godeva di un enorme
prestigio nei cervelli dei miei compatrioti appena risvegliati alla
civiltà: automobili, baffi alla Guglielmo II, pallide governanti, musica,
pianoforti, tutto veniva da lì. E mio padre ne tornava carico di tutte
queste cose, compresi i baffi marziali che a ogni viaggio attingevano
nuovo vigore, si allungavano e si raddrizzavano ulteriormente. Non
bisogna dimenticare infatti che Guglielmo II si atteggiava a protettore
dei turchi e dell’Islam, e da ciò derivava il suo prestigio presso di noi,
cugini dei turchi.
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