Gerusalemme – La verità delle stelle – Giovanna Tatò

SINTESI DEL LIBRO:
È tutto pronto: passaporto, visto di Israele, valuta.
Prendo la Bibbia, la tengo qualche istante fra le mani raccolte a
coppa, la apro a caso e leggo in alto a destra:
Con tutto il mio cuore è te che cerco1.
Guardo l’orologio. Il campo magnetico del mio corpo interferisce
sul meccanismo di precisione e nel volgere di poco influenza lo
scandire delle ore. Butto l’occhio a uno dei display della sala
partenze per confronto. Va tutto bene, per ora.
Mara, Alexia e io arriviamo a Tel Aviv nel primo pomeriggio e per
adeguarci alla rete locale di telecomunicazione noleggiamo dei
telefonini di tecnologia israeliana. Un’ora e mezza di taxi per
Gerusalemme e siamo in albergo, appena fuori le Mura, nella parte
araba a nord-est della Città Antica, a pochi minuti dal centro storico.
L’impressione complessiva è gradevole. C’è un bel giardino interno,
ombroso, con diversi tavoli e un banco da bar in un angolo. Ci diamo
appuntamento lì entro un’ora.
«Ecco, è arrivato il momento. Sono qui».
Con la voce appena alterata dall’emozione, mi congedo quasi
subito da colui che per me è l’Amico in assoluto, al di là del tempo e
dello spazio, l’Amico nel senso più alto del termine. Averlo incontrato
ha segnato un turning point nella mia vita, un vero inizio.
La stanza non è molto grande, orientale nei colori ma nitida ed
essenziale nelle linee. L’aria che la pervade è calda, secca,
penetrante. Mi avvolge. Una sensazione forte, bella e severa. Non
lascia il passo al superfluo. Percorro con lo sguardo le colline di
fronte, fatte di roccia. Dura. Aspra. Roccia del deserto. Il deserto di
Giudea. Sono qui. Domani comincio. Le valigie in un angolo. Le apro
stasera, ora no. Quanto tangibile silenzio. Che meraviglia!
Decido di uscire, all’aperto. Questi alberi sembrano assurdi: un
verde cupo bellissimo fa pensare all’umidità ma tutto intorno è
roccia, deserto, sabbia, infinito cielo senza nuvole. E il caldo: la
temperatura è ancora molto alta. Non c’è odore di verde, di terra, di
cibo, di esseri umani. Non ci sono odori. Il caldo secco mangia tutto.
Che terra è questa, senza odori?
Mi sdraio sul letto. Lentamente mi abbandono. Sono al centro del
mondo. Si alza una specie di nebbia leggera, poi si infittisce. È come
puntinata di luci lontane. Assaporo quell’intensità, fatta di intangibilità
e di luce… e mi ricordo del prorompente, dolce profumo del verde,
portato da un vento gentile. Non è di fiori, di erbe, di foglie ma di in
un’unica soave fragranza che li fonde. Mi sento rarefare da
quell’essenza verde. È ovunque. Leggera e travolgente mi trasmuta
in una morbidezza senza forma. Eppure, mi contiene, come un
mantello. E, mentre affondo, mi sento svanire. Da un ramo spezzato
goccia la linfa: è lattea.
Poi si ferma. L’incanto finisce.
Prendo due libri dalla valigia grande. Li poggio sul comodino e mi
guardo intorno. Adesso la stanza è mia. Quei libri hanno posato
nello spazio un po’ di me. Prendo La Bible de Jérusalem. La
preferisco in francese, è un po’ più libera. Quella italiana, riscritta
molte volte soprattutto negli ultimi cinquanta anni, rivela divergenze
sconcertanti.
«La Bibbia, come sai, è stata fatta a mille mani, in diverse
epoche», mi disse un giovane Pastore di Tübingen. «Ma quello che
non sai, forse, è che la Bibbia è sì un compendio di alcune verità
per questo è un libro, diciamo, eterno – ma anche di tante storie di
uomini e di donne».
Ricordo il suo volto, la piega severa delle labbra. Mentre mi
parlava lo osservavo e mi domandavo se sarei mai riuscita a trovare
la Verità tra le molte migliaia di righe, alcune di superba bellezza e
profondità. Forse, nel Nuovo Testamento…
«La Verità è una sola e non si trova nei libri. Non si può creare. Si
può solo viverla».
Ora sono cresciuta ma queste frasi all’epoca mi arrivarono come
una staffilata. Quell’assunto, rimasto scolpito nel petto, ora tornava,
inarrivabile come allora.
Ci ritroviamo in giardino.
«Volevo fare subito una piccola ricognizione delle nostre idee su
cosa fare e quando, che ne dite?», è la mia proposta.
«Facciamo stasera…», sorride Mara. «Ora ce ne usciamo a fare
una bella passeggiata, a vedere un po’ di cose, senza decidere
niente. Così, in relax. Eh?».
«Il viaggio è stato abbastanza lungo e complicato, non ti pare?»,
interviene Alexia.
Certo la proposta era sensata.
«Non c’è dubbio: passeggiata».
L’ora è perfetta.
Dritta davanti a noi, la bella Porta di Damasco si apre su una
strada ampia in discesa a gradoni. Ci immergiamo nella folla
multicolore dei palestinesi, dei turisti, delle bancarelle cariche di
colori: frutta, ortaggi, stoffe, oggetti. Le grida del venditore di falafel
ci portano verso una magnifica padella gigante posata su un
altrettanto gigantesco fornello al centro di uno incrocio. Un giovane
prepara le tradizionali polpette di ceci da friggere. Le fa scivolare
dentro la grande padella. Impossibile non mangiarne. Il primo
cartoccio è mio, Mara e Alexia si dividono il secondo. Proseguiamo.
Passiamo sotto a delle gallerie. Luce e ombra giocano con le ore del
pomeriggio, vocìo, risate, grida.
Arrivate in fondo siamo al bivio tra la parte cristiana e quella
ebraica. Decidiamo per quella ebraica nuova, fuori le Mura.
Il panorama cambia completamente. Normali strade asfaltate di
città dotate di altrettanto normale marciapiede, palazzine comuni a
tre, quattro, piani. Rari bar, diversi negozi, alcuni simili a piccoli
supermercati. Ci lasciamo alla nostra destra quello che la piantina
indica come il quartiere russo e proseguiamo verso la centralissima
Ben Yehuda. Tutto è pulito e ordinato. Per strada nessuno grida, visi
severi. Dei chassidim ci passano accanto: probabilmente padre e
figlio. Sono vestiti uguali, tonaca nera lunga, cappello nero a tesa
larga, boccoli che scendono lungo le orecchie. Il bimbo replica il
padre in sedicesimo. Siamo silenziose.
«Ho sete», dico giusto per rompere questo strano silenzio. «Ci
fermiamo in un bar?».
Poco lontano ci sono dei tavolini sistemati per strada. Ci
dirigiamo lì. Non facciamo in tempo a sederci che davanti a noi si
para un drappello di soldati in tuta mimetica, berretto e fucile in
spalla. Ci sediamo e guardiamo la scena. A me sembra incredibile.
Un soldato poggia il suo fucile su un tavolo e va dentro, presumo per
ordinare qualcosa mentre gli altri, due sono donne, si siedono
intorno al tavolino restando armati di tutto punto. Volti tirati e
silenziosi. Il compagno torna e rimette il fucile in spalla. Si siede.
Guardo le facce degli altri avventori. Nessuna sorpresa. Devono
essere abituati a vedere militari armati, che ordinano una bibita
fresca al tavolino di un bar. Mai visto nulla di simile se non in una
città in guerra. Nei miei viaggi precedenti, ne avevo solo percepito
l’atmosfera. Fra aeroporto, albergo, sale conferenze, Knesset o Yad
Vashem e studi televisivi, non mi ero potuta calare pienamente nel
quotidiano di una guerra con i fucili e di un’altra con i libri sacri.
L’atmosfera è pesante. Non c’è requie.
Rivedo il volto di chi ci ha riunito qui e torno alle sue parole
ascoltate in pubblico, parole mai dette prima. Aveva lanciato l’idea
del viaggio a Gerusalemme durante una circostanza alla quale non
ero presente. Fu Alexia a portarmi l’invito e a parlarmi di Mara.
La proposta mi piaceva, sollecitava la mia ricerca di radici in mille
direzioni. Avevamo tutte e tre in comune un bell’obiettivo: stare un
po’ a Gerusalemme, andare nel Giardino degli Ulivi, visitare la
Palestina di un tempo.
Rivedo il volto di Cristo, Verità sempre tra noi. Ma come è
rimasto,
rimane tuttora, inascoltato, incompreso, tradito:
strategicamente. E non penso a Giuda.
Guardo la strada. È moderatamente animata. Il sole comincia a
farsi obliquo e l’azzurro del cielo più tenue.
«Quando andiamo nel Giardino degli Ulivi?».
«Hai fretta? Abbiamo tutto il tempo».
Mara sembra pensare a qualcosa.
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