Cronache dal Cono Sud – Luis Sepúlveda

SINTESI DEL LIBRO:
La settimana scorsa, alla Casa de América di Madrid, si è tenuta
una giornata sulla letteratura cilena e, quando è venuto il mio turno,
ho voluto parlare della parte migliore del mio paese, della sua gente
che spera di tornare a quella normalità democratica strappataci a
suo tempo dal golpe, che a quindici anni di distanza dalla fine della
dittatura ancora non ci viene restituita in tutto il suo splendore, con
tutti i diritti garantiti. La parte migliore del Cile è la sua gente, una
larga maggioranza della quale desidera istituzioni che funzionino e la
verità, a prescindere dagli assurdi miti che condizionano gran parte
della realtà cilena.
Volevo parlare della parte migliore del mio paese, ma il fantasma
del delinquente che ha assassinato, torturato, rubato, imbrogliato,
falsificato passaporti e documenti commerciali, corrotto persone,
fatto acquisti fraudolenti e commesso tanti altri crimini che stiamo
scoprendo giorno per giorno è, disgraziatamente, inevitabile, e la
maggior parte delle domande del pubblico lasciava trasparire lo
stesso stupore che proviamo noi cileni. Com’è possibile che non sia
stato ancora processato? Com’è possibile che non siano ancora stati
sequestrati tutti i suoi beni? Perché si tarda tanto a punire il suo
tradimento e la sua smania di rapina?
Qualcuno in mezzo al folto pubblico della sala Bolìvar, nella Casa
de América, ha fatto un commento che, sia pure con le migliori
intenzioni, riproponeva un falso mito.
Ha detto che l’esempio di Pinochet offendeva la «tradizione
prussiana» dell’esercito cileno. Ma quale tradizione prussiana? Il
casco tedesco che portano alle sfilate? Le tradizioni si basano su un
processo di selezione qualitativa, hanno radici culturali, serbano il
meglio di tutta un’esperienza, ed è proprio per questo che nessun
esercito possiede né può possedere tradizioni. Forse hanno
abitudini, e se ci riferiamo ai prussiani, questi avevano l’abitudine di
suicidarsi per lavare il disonore. Ora, nessun militare cileno - tranne i
complici delle sue ruberie - può avere alcun dubbio sul fatto che
Pinochet abbia insozzato l’ipotetico onore castrense. I prussiani
mettevano una pistola sul tavolo del colpevole, chiudevano la porta e
aspettavano che si sparasse.
Qualche ufficiale cileno osa forse mettere la pistola sul tavolo di
Pinochet, di Contreras, di tutti i responsabili dell’epoca più nera e
ignobile della nostra storia?
Dice Benedetti che un torturatore non si redime con il suicidio,
ma è già qualcosa, ed è vero.
Sempre alla Casa de América, un altro convenuto ha accennato
alla vergognosa realtà rappresentata dall’attuale costituzione cilena,
fatta su misura per gli interessi della dittatura e dei suoi complici in
giacca e cravatta. Davvero non si può redigere una costituzione
democratica, rappresentativa di tutti i cileni e tutte le cilene, per poi
farla sancire da una consultazione popolare, altrettanto democratica
e necessaria?
Cosa o chi lo impedisce? Non meritiamo una spiegazione al
riguardo?
Qualcuno ha poi alluso a un’altra delle peculiarità del Cile attuale:
a quel dieci per cento di esportazioni di rame - la nostra principale
ricchezza, di tutti i cileni - che è proprietà dell’esercito. Perché? Fino
a quando? Quanti milioni di dollari significa quella percentuale e in
cosa viene spesa? C’è una qualche giustificazione morale perché
l’esercito sia uno Stato dentro lo Stato? È forse il prezzo che
paghiamo per il lento recupero della democrazia?
Tutte le cilene e tutti i cileni hanno il diritto d’immaginare e
desiderare un paese in cui sia il potere civile e laico, il potere dei
cittadini rappresentati in un parlamento libero da cariche non elettive,
a decidere come investire i frutti della nostra maggiore ricchezza,
perché appartiene a tutti noi. Ogni cilena e ogni cileno è custode
della sovranità nazionale, e sono sovrani solo quelli che decidono
appieno del proprio destino. Fino a quando durerà la tutela? Non
siamo forse un paese di sani costumi e di tradizione - qui sì che la
parola ha senso - democratica?
Volevo parlare della parte migliore del mio paese, della sua gente
piena di speranza, della sua immagine che non è quella riflessa nella
spazzatura del
«Mercurio» né sui giornali sensazionalistici del Consorcio
Periodistico de Chile, del suo desiderio di democrazia che non si
misura con i parametri macroeconomici né con statistiche
fraudolente che omettono il futuro e l’incidenza esercitata su di esso
dal presente.
E poiché amo il mio paese, ho parlato dei suoi uomini e delle sue
donne, della sua gioventù ostinatamente impegnata a conquistare la
felicità e la giustizia. Ho raccontato, come scrittore, la sua presenza
ordinata e pacifica nelle strade di Santiago durante la marcia del
Social Forum cileno, e della sua protesta durante i funerali di Gladys
Marin.
Qualcuno ascolta questa vox populi? Qualcuno ha le orecchie
sgombre dalla spazzatura delle caserme? Almeno una delle due
donne brillanti che concorrono alle primarie della Concertación avrà
il coraggio di passare alla storia come colei che ha restituito a tutti i
cileni la pienezza dei diritti civili, democratici, l’ordine giusto dei
popoli nobili come il nostro?
Ci sono state molte altre domande come queste, parlando del
Cile alla Casa de América.
Aprile 2005
Cile, la guerra che non c’è stata
1
L‘11 settembre 1973 Pinochet e gli altri tre ufficiali traditori che
comandavano la marina, le forze aeree e il corpo dei Carabineros
dichiararono che erano in guerra, che il paese era in guerra contro il
marxismo «lininismo», come ripeteva Pinochet in uniforme da
combattimento, e orde di militari cominciarono ad assassinare,
torturare, sequestrare cilene e cileni, oltre a razziare i beni di quanti
cadevano nelle loro mani.
Quando i morti si contavano a centinaia, la giustizia fu cieca,
sorda e muta. Per la maggior parte, i membri della Corte Suprema, il
più alto tribunale cileno, erano - e molti lo sono ancora
ultraconservatori, aperti simpatizzanti del fascismo e nutrivano un
odio ancestrale nei confronti della classe operaia. Quando i morti e i
desaparecidos si contavano a migliaia, i giudici cileni decretarono
che era tutta un’invenzione dei nemici della patria.
I giudici cileni, signori della frusta e della forca, avevano sempre
sognato di governare il paese come ai tempi delle colonie: gli
esponenti delle quaranta famiglie che la facevano da padrone
dovevano comandare e il resto dei cileni obbedire. Era secondo
questo principio immondo che si legiferava, era secondo questa
nauseabonda teoria che in Cile si «faceva giustizia».
I giudici cileni, quelli che furono membri della Corte Suprema nei
sedici anni della dittatura, furono tutti dei prevaricatori, senza
eccezione, furono complici delle torture, delle uccisioni, dei sequestri
di persona. Sapevano perfettamente cosa combinava la soldataglia
e non fecero nulla, perché anche loro dichiararono che il paese era
in guerra.
Chi erano questi giudici? Latifondisti o parenti di grandi
proprietari terrieri che odiavano l’idea di una riforma agraria.
Omosessuali omofobi che sognavano campi di concentramento per
gay e lesbiche. Cattolici che andavano a messa ogni giorno, tutti con
una foto insieme al papa sulla scrivania, in altri termini un mucchio di
degenerati che avevano il potere di negare la giustizia ai poveri, agli
umili, a quelli che sudavano per pagare i loro lussi e capricci.
Furono loro ad avallare lo stato di guerra, fu con il loro aiuto che
venne identificato
«il nemico», e cioè i militanti di Unidad Popular, i comunisti, i
socialisti, gli attivisti del MIR, i preti progressisti, i giovani e persino i
ragazzini. E il nemico andava annientato.
Il 5 ottobre 1973, Ricardo Gustavo Rioseco Montoya, ventidue
anni, studente della Universidad Tècnica, arrivò ad Angol, nel sud
del Cile, per avere notizie del padre, un dirigente comunista,
arrestato dai militari, che si supponeva rinchiuso nella caserma del
reggimento «Hùsares de Angol». Alle quattro del pomeriggio di
quello 1 Cile, la guerra che non c’è stata è apparso sul «Manifesto»
il 10 agosto 2005.
stesso giorno, lo studente fu fermato per strada, sotto gli occhi di
molte persone, da soldati dell’esercito cileno. A spintoni lo fecero
salire su un camion e lo portarono via.
Un’ora dopo, quando era ormai iniziato il coprifuoco, quel sinistro
arco di tempo in cui solo gli assassini potevano muoversi per le
strade del Cile, la pattuglia militare che aveva fermato lo studente
incontrò un ragazzino di quindici anni, Luis Cotal Alvarez, che
camminava in fretta verso casa. A spintoni lo fecero salire sul
camion e scomparvero.
Trent’anni dopo si è saputo che quella pattuglia militare li portò in
un magazzino di materiali edili, li sottopose a ogni genere di tortura e
alla fine li ammazzò a colpi di arma da fuoco. I loro corpi furono
occultati, nessuno li vide, non ci fu veglia funebre né sepoltura, ma
secondo la versione ufficiale dell’esercito cileno, versione avallata
dalla Corte Suprema di Giustizia, lo studente e il ragazzino
sarebbero stati fucilati, dopo essere passati dalla corte marziale,
perché erano due guerriglieri che avevano cercato di assaltare la
caserma degli «Hùsares de Angol».
Uno studente di ventidue anni e un ragazzino di quindici
avrebbero attaccato gli oltre duemila militari armati del reggimento
«Hùsares de Angol».
L’uomo che aveva dato ordine di torturarli e ucciderli, e che in
seguito inventò la storia dell’attacco alla caserma, era il colonnello
dell’esercito Joaquin Rivera Gonzàlez. Si chiama ancora così colui
che diede gli ordini ai torturatori e agli assassini di uno studente e di
un ragazzino.
Angol è nel profondo sud del Cile, e gli abitanti per la maggior
parte sono mapuche. Nessuno ricorda che il reggimento sia mai
stato attaccato. Ma all’epoca i giudici della Corte Suprema di
Giustizia decisero che quello studente e quel ragazzino erano «il
nemico» e quindi, secondo la legge marziale, era lecito che, una
volta arrestati e processati da un tribunale militare, fossero fucilati.
Ma non dissero quando era avvenuto l’attacco, non dissero quando
e dove si era tenuto il processo, né se avevano avuto difensori, né
indicarono quando erano stati fucilati o cosa ne era stato dei loro
corpi.
E ad Angol, nel profondo sud del Cile, nessuno ricorda la
fucilazione di uno studente e di un ragazzino.
Tuttavia trent’anni dopo i genitori, i familiari dei due ragazzi, con
l’aiuto di organizzazioni per la difesa dei diritti umani, sono riusciti a
far processare il colonnello Joaquin Rivera Gonzàlez per i reati di
sequestro di persona e di omicidio.
Sul criminale gravava una possibile condanna a dieci anni di
carcere, che doveva essere confermata dalla Corte Suprema di
Giustizia. Dieci anni di carcere per aver sequestrato, torturato,
ucciso, fatto sparire uno studente di ventidue anni e un ragazzino di
quindici.
Ma la Corte Suprema di Giustizia ha ritenuto che quei delitti non
sussistessero, perché i soldati sequestrano, torturano, uccidono,
fanno sparire i corpi solamente quando c’è una guerra. Noi cileni
abbiamo appena saputo che, malgrado tutto quello che ci è stato
detto per sedici anni, non c’è stata guerra, non c’è mai stata nessuna
guerra, l’esercito non è mai stato in guerra, e pertanto il colonnello
Joaquin Rivera Gonzàlez è innocente come un bimbo in fasce.
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