Bestie – Joyce Carol Oates

SINTESI DEL LIBRO:
Ero nelle sale del Louvre dedicate
all'Oceania quando la vidi.
Una statua di legno dalle
sembianze femminili alta circa tre
metri,
spigolosa e rozzamente
intagliata, con un volto stretto e
allungato, animalesco, le orbite
vuote e uno sfregio al posto della
bocca. Invece dei seni mammelle
animali, assicelle di una trentina di
centimetri che dalle spalle si
allungavano verso il basso; contro il
petto la figura stringeva una forma
che ricordava un poppante. Eccetto
il fatto che l'infante era soltanto una
testa troppo grande e rotonda,
grottesca; non aveva corpo. Il totem
era classificato semplicemente come
una
"maternità "
aborigena
proveniente dalla British Columbia,
Canada, antica di almeno due secoli.
Eccola. È qui.
Non è andata in fumo, dunque...
Ero confusa e non riuscivo a
pensare in maniera coerente. In
quella sala fredda e austera che
l'ospitava, il totem aborigeno aveva
un'aria così rudimentale e rozza, così
primitiva, così poco umana. Lo
fissavo e rabbrividivo. Poi gli voltai
le spalle decisa ad andarmene, ma
tornata sui miei passi mi ritrovai a
fissarlo. Come se la madre che
allattava mi avesse chiamata...
Gillian? Non avere paura. Siamo
bestie, e questo ci consola. Perché
era un incubo, un incubo osceno.
Immaginai che guardando una statua
come quella un uomo dovesse sentir
spegnere dentro di sé ogni desiderio:
qui il principio maschile desiderante
e famelico era ridotto a una brutta
testa premuta con forza, soffocata,
contro il petto materno. E una donna
avrebbe sentito tutto ciò che c'è di
delicato in lei, la tenerezza che ci
rende umane, svanire.
Come bestie non conosciamo
colpa.
Nessuna colpa.
«Scusi signora, si sente bene?»
La voce rassicurante apparteneva
a un connazionale. Un signore di
mezza età , ricco abitante del
Midwest, mi stava osservando
insieme
alla
preoccupata.
moglie
dall'aria
Rapida, con il mio sorriso
americano abbagliante come un
neon, dissi: «Grazie, molto gentile.
Sto bene». Mi girava la testa, e
probabilmente i due mi avevano
vista vacillare. Però adesso stavo
bene e non volevo essere avvicinata
né, tantomeno, toccata. Siccome la
coppia continuava a fissarmi ripetei:
«Grazie!» e mi allontanai a passo
deciso.
Lasciai il Louvre molto turbata.
Percorsi il Lungosenna senza vedere
niente. Quel totem così brutto e al
tempo stesso così potente! Gli occhi,
poi.
Pensavo alla morte di due persone
che avevo amato, tanto tempo prima.
Era stata una morte orribile, da tutti
creduta accidentale.
Sotto l'opaco cielo parigino
scorreva plumbea la Senna. Le
romantiche guglie di Notre Dame
erano avvolte nella foschia o nello
smog. Io ero talmente assorta da non
notare le bancarelle degli ambulanti
che, invadenti, bloccavano la vista
del fiume tanto cantato.
Avevo quarantaquattro anni: un
quarto di secolo era passato.
Questa non è una confessione.
Come vedrete, non ho niente da
confessare.
2
L'allarme
20 gennaio 1976
Di notte, l'urlo degli allarmi
antincendio.
Di notte, la bellezza tremenda del
fuoco.
Notte di mezz'inverno nella morsa
polare delle Berkshire Mountains,
sudovest del Massachusetts. Fiamme
che guizzano verso il cielo dalla
strada sterrata che costeggia il
college, un cul-de-sac fitto d'alberi.
L'allarme suonava assordante nel
nostro dormitorio. C'era odore di
fumo e la paura mi faceva battere il
cuore all'impazzata.
Comunque ebbi il tempo di
pensare: non può essere vero.
Perché per me non sarebbe mai
stato vero. Non sarebbe mai stato
altro che un sogno confuso.
Incespicai fuori insieme alle altre.
Eravamo stordite come animali in
fuga. Le tre e cinquanta di notte,
quindici gradi sotto zero. Il vento
gelido soffiava il fumo nella nostra
direzione. Mi faceva male la testa
per il freddo: dov'erano i miei
capelli? Che cos'era successo ai miei
capelli? Mi toccai la zazzera
cortissima e ricordai.
Stavano bruciando anche i miei
capelli, le mie bellissime trecce.
Poi riuscimmo a vedere: il fuoco
era altrove, non a Heath Cottage.
L'allarme nel nostro dormitorio era
stato dato per errore. Potevamo
provare un senso di sollievo,
l'incendio era a quasi un chilometro
di distanza.
Dove? In una delle case di Brierly
Lane?
Qualcuno
piangeva.
Come
bambine spaventate ci stringevamo a
vicenda le mani ghiacciate, e
tuttavia non mancava una cert'aria
festosa. Un incendio? Oh, e dove?
Avevamo indossato velocemente
giacche e cappotti, infilato i piedi
nudi negli stivali. Sembrava quasi
che il panico ci rendesse frivole.
Faceva talmente freddo, le lacrime si
gelavano sulle guance nel giro di
pochi secondi.
Dominique,
bellissima
e
muscolosa, mi strinse tra le braccia e
leccò le mie lacrime gelate con la
lingua morbida e calda.
Le sorveglianti ci stavano dicendo
di ritornare dentro, che non c'era
pericolo. L'incendio non si era
sviluppato nel campus. I volontari di
Catamount erano già all'opera e nel
giro di pochi minuti un secondo
mezzo sarebbe arrivato da Great
Barrington con la squadra dei
pompieri.
L'incendio, in ogni caso, avrebbe
continuato
a
divampare
"incontrollabile" per oltre un'ora, un
tempo fatale.
Quando un abitante di Brierly
Lane aveva lanciato l'allarme, la
casa era già completamente avvolta
dalle fiamme. I pompieri inondarono
il tetto d'acqua, ma del tetto era
rimasto ben poco.
In Brierly Lane erano quasi tutte
vecchie case coloniche, edifici di
legno e stucco. Con i tetti di
assicelle, aguzzi. Sorgevano lontane
dalla strada coperta di ghiaia,
nascoste da folti boschetti di ginepri
e betulle. I vialetti d'accesso, molto
stretti, rendevano ancora più difficili
le operazioni di soccorso.
Odiavo le sorveglianti che ci
gridavano di rientrare, che ci
trattavano
come
disobbedienti.
Non
bambine
eravamo
bambine, non eravamo tenute a
obbedire. Qualcuno avrebbe voluto
sfuggire
al
loro
controllo,
attraversare il campus fino a Brierly
Lane per vedere personalmente cosa
stava succedendo.
Quale casa stava bruciando.
Il vento ci investiva di caligine
che si incollava alle ciglia come
lacrime color catrame.
Qualcuno, forse Cassie, mi strinse
la mano così forte da provocarmi
una smorfia di dolore. Però era un
dolore che dava felicità , che
stordiva, pieno di adrenalina.
Qual è la casa che brucia?
È...?
Ci costrinsero a rientrare nel
dormitorio. Di colpo mi sentivo
molto stanca, avrei voluto sdraiarmi
sulle scale e dormire al sicuro tra le
mura di Heath Cottage, al caldo e
alla
luce.
Mi tremavano le
ginocchia. Incespicai sui gradini
all'improvviso
troppo ripidi e
un'amica mi sostenne afferrandomi
sotto le ascelle. Ero molto minuta
con i miei quarantacinque chili, ma
ciò non vi tragga in inganno.
Oppure: non ero stata svegliata
dall'allarme. Non ero stata svegliata
dall'allarme antincendio. Né dalle
grida delle altre ragazze. In effetti
quella
notte
non
mi
ero
addormentata, ero rimasta sdraiata
semivestita nel mio lettino, una
branda nello stile spartano del
Catamount College: struttura di
metallo, materasso pieno di bozzi,
niente testiera, a scrivere il mio
diario come mi era stato ordinato di
fare.
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