Akiko – Michela Cavaliere

SINTESI DEL LIBRO:
A volte il destino si beffa delle macchinazioni degli esseri umani
che si credono tanto scaltri e che cercano di far ruotare gli
ingranaggi dell’esistenza a proprio piacimento.
C’era stato un tempo in cui avevo vissuto in esilio, oh sì, un esilio
lungo un’eternità, sarebbe il caso di dire. Ma anche i piani più astuti
a volte vengono infranti dalla casualità,
dall’intreccio inaspettato di diversi destini che si incontrano
e che danno vita a qualcosa di nuovo.
Oh sì, ripensare a questo quasi mi fa sorridere, ma cos’è un sorriso
al pensiero
di tutto quello che ho trascorso per poterlo raccontare?
Sei sprovveduto e avventato, se hai fra le mani questa pergamena
e vuoi conoscere la mia storia.
Stai attento... Non sai dove ti porterà e rischierai di perderti.
Né giuste né sbagliate sono le parole e le azioni dei suoi
protagonisti,
non schierarti mai, non legarti a nessuno, non provare sentimenti,
non provare affetto né amore perché, caro lettore, rischi la mia
condanna.
*
I
suoi movimenti erano fluidi e veloci. Se qualcuno l’avesse vista
muoversi in quel momento non avrebbe mai detto che potessero
appartenere a una signora di una certa età. Ma avrebbe sbagliato,
perché Kaede, in realtà aveva molti più anni di quanti ne
dimostrasse nella sua forma umana.
E umana non era.
La bambina stava tra le sue braccia, ignara del mondo attorno a sé,
ma consapevole solo del calore della stretta rassicurante della
donna. Kaede giunse in un batter d’occhio nelle sue stanze, semplici
ed essenziali, con appena un giaciglio, un tavolino e un guardaroba
neppure troppo grande.
Fece un sospiro di sollievo, quando si sentì protetta dalle mura che
la separavano dal resto del castello e abbassò lo sguardo verso la
bambina.
«Sei davvero molto bella, peccato per te», le disse pensando alle
colpe che non le appartenevano e che tuttavia avrebbe dovuto
pagare. «Ora ti porto in un bel posto, principessa».
Inspirò e chiuse gli occhi. Quando li riaprì, l’ambiente era cambiato.
Non c’erano più il giaciglio, il tavolino e il guardaroba; anche la
camera era cento volte più grande.
Totalmente al buio, Kaede cominciò a risplendere come un fuoco. Si
muoveva con sicurezza, quasi potesse vedere nelle ombre, come se
i suoi occhi vedessero al di là delle tenebre.
Poggiò la bimba su un altare, inspirò traendo un respiro molto più
lungo di quello umano e infine emise un lento, ma continuo sospiro
sul corpo della bambina, un sospiro fatto di colore e calore.
La sala s’illuminò di una luce dorata e tutto prese vita. Migliaia di
gemme – diamanti, rubini, smeraldi e acque marine – si accesero di
riflessi scintillanti; oro, oro e ancora oro brillò di luce propria. Lo
stesso altare riluceva di ambra e lapislazzuli.
“Sfrontata...”.
Kaede prese in mano un ciondolo e lo fece oscillare sulla bambina,
continuando ad avvolgerla col suo respiro. Il pendaglio, una pietra
blu cobalto, che sembrava plasmata dal vento e dal mare, vibrava in
maniera inconsulta.
«Kameyo, apriti a me, donami i tuoi occhi, cosa vedrai, cosa farai,
cosa diventerai...».
La neonata sembrò risplendere di più e sotto le palpebre le si accese
la luce bianca del sole. Così cominciarono le visioni.
«Re Orochi, ecco sua figlia Kameyo».
Kaede entrò nella stanza del re portando la piccola e continuando ad
augurarsi che tutto rimanesse nascosto alla coscienza degli umani.
L’uomo cominciò ad andarle incontro, ma si fermò quasi subito.
“Che abbia capito qualcosa? Che abbia percepito il Male che
circonda la bambina?”.
No, il terrore le scivolò via. Quella del re era solo emozione.
«È una bambina, dunque? E la regina come sta?».
«Sta bene, maestà. Ora sta riposando. L’ha chiamata Kameyo, non
trovate sia un bellissimo nome?».
Orochi guardò la bambina che muoveva la bocca come a ciucciare
nel sonno e il suo sguardo, di solito freddo e distaccato, si addolcì.
Allungò quindi le braccia e la prese stringendola con una delicatezza
che neppure lui immaginava di avere.
«La mia bambina... mia figlia...», sussurrò.
Kaede osservava la scena mostrando la propria gioia; era tuttavia
solo un’espressione di facciata. La verità era che dentro di sé
regnava il caos; non sapeva come Lui avrebbe reagito e, soprattutto,
se lo avrebbe fatto.
«Sei bellissima, amore mio... Non è vero che è bellissima?», riprese
a dire il re. «Kameyo... La mia bambina, la futura regina di
Shimakaze. Sei tutto per me, ti comprerò il mondo, avrai tutto ciò
che desideri, tutto ciò che potrà renderti felice, piccola mia». Alzò lo
sguardo su Kaede. «Ci saranno festeggiamenti in tutta l’isola! Tutto il
mondo deve sapere della nascita della principessa, tutto deve
essere perfetto! Feste grandi ci saranno per te, piccolo angelo
mio...».
Ma la parola, quest’ultima semplice parola, angelo, provocò
qualcosa, provocò qualcuno.
La bambina si svegliò.
Lui si svegliò.
E il corpicino della neonata iniziò a baluginare e a emanare un
calore irreale, insolito.
«Che succede?», gridò il re. «Kaede! La bambina... la bambina è
calda... bollente. Sta male!».
Il
re scoprì la figlia e guardò con orrore il petto illuminato fino a
riconoscere nella luce accecante e rossastra, un simbolo dapprima
dai contorni confusi, poi, sempre più definito.
«Kaede, io... Forse lo conosco. C’è un simbolo sul petto... Un cuore
morto
忘
. Oh no... È un sacrilegio! Questa non è mia figlia! È la figlia
di un sacrilegio!», tuonò il re voltandosi verso la donna e mostrando
il simbolo. «La regina mi ha tradito! E ha tradito la mia fiducia. Ha
creato quest’abominio, questa bambina maledetta!».
«Aspettate, fatemi spieg...».
«No! Non c’è niente da spiegare, questo è un abominio! Dev’essere
uccisa subito. Non è una bambina, è un mostro!».
«È vostra figlia, sire».
Ma il re la ignorò. Mise la bambina sulla sua scrivania, afferrando poi
la wakizashi che aveva al fianco. Quasi strappò le vesti della bimba
e alzò la lama per conficcargliela nel cuore.
Poi colpì, con lo sguardo velato di lacrime.
Ciò che vide bastò a fermargli il braccio. Quello della bimba non era
uno sguardo umano. Le pupille si erano illuminate di rosso e oro, e il
fondo dell’occhio aveva assunto il colore del sole all’alba.
La bimba stava sorridendo.
La wakizashi divenne cenere. Terrorizzato, Orochi balbettò senza
riuscire a dire niente.
«Tu non puoi uccidere questa creatura», gli disse la voce della balia,
costringendolo a voltarsi. «È molto più importante di te e di sua
madre Minako. Tua figlia dovrà raggiungere il suo destino che tu,
semplice umano, non potresti mai arrivare a comprendere. In tempi
di dolore e odio, di intrighi e rimorsi, solo lei potrà portare il sole o la
luna, quando il ponte tra i due destini sarà di nuovo unito. Lascia
vivere questa bambina, Orochi, lasciala al suo destino perché si
compia, al di là di te e della tua piccola isola».
Il re rimase senza fiato.
Kaede gli si avvicinò e prese Kameyo; le baciò la fronte bollente e le
sussurrò all’orecchio: «Devo lasciarti, splendida creatura. Ma ci
incontreremo di nuovo, in questo mondo o in un altro». Poi si rivolse
a Orochi: «Lasciala al mare. Il tuo odio e il tuo disprezzo non
potrebbero crescerla e il Male prenderebbe il sopravvento. Lasciala
alle onde e al vento questa notte stessa. Portala alla baia a Est e
alle prime luci dell’alba tua figlia inizierà il suo viaggio».
La porta si spalancò e, come una furia, irruppe Minako, la
carnagione bianca come uno spirito del Tempo, stanca e distrutta nel
corpo, ma con l’animo combattivo.
Kaede le si avvicinò e le diede la bambina.
«Falle sentire ancora una volta il battito del tuo cuore. Allattala solo
questa notte e non dimenticarla mai, questo le permetterà di
sopravvivere. Orochi sa cosa bisogna fare. Addio, bambina».
Poi la donna si dileguò in una spirale di vento e polvere dorata,
mentre una brezza gentile entrava nella stanza lasciando un vuoto
tangibile tra i due sposi.
Un silenzio mortale scese tra loro.
Nello stesso momento, in un’abitazione ben più modesta, un
bambino si destava dall’incubo che aveva rovinato il suo sonno
profondo.
Ryuu udì un dolore così lancinante al petto e un richiamo così chiaro
da destarlo dal suo brutto sogno.
Si mise a sedere sul futon, in allerta e con i sensi vigili e attenti a
captare qualunque segno di pericolo. Guardò il letto di suo fratello e
vide che Haru stava dormendo.
Cosa era successo? Era stato un semplice incubo? Se anche fosse
stato così, questa possibilità non placava l’angoscia che ancora lo
permeava.
“Sta succedendo qualcosa di brutto, un attacco forse, ma perché
Haru non si è svegliato?”.
Aveva sentito qualcuno piangere e, in quel momento, il suo cuore
era impazzito.
“Devo uscire di casa, magari l’aria della notte mi rinfrescherà la
mente”.
Si vestì e fece scorrere la porta di carta di riso, poi sgusciò fuori.
Guardò l’orizzonte e osservò il mare che si stagliava in lontananza.
La loro casa era in cima alla collina, vicino al campo di
addestramento e alla caserma militare; da quell’altezza potevano
scorgere le navi in arrivo e in partenza e avere una buona idea
dell’andamento della città sottostante.
“È quasi l’alba”, pensò sovrappensiero. Poi un dolore atroce lo colpì
alle tempie e al petto; si morse il labbro per non gridare e si
accasciò.
“Cosa mi sta succedendo?”. Un vento iniziò a sollevarsi da terra e a
scompigliargli i capelli. Non seppe darsi una spiegazione per quelle
folate confuse, ma sapeva che era così.
Il
dolore aumentava propagandosi in tutto il corpo; i muscoli
iniziavano a dolergli a partire dalle braccia e da un irrigidimento del
collo e della schiena; le gambe si stavano indurendo e non poteva
più muoversi, anche perché il dolore era tale che lo stava facendo
impazzire.
Pensò che stesse morendo per una qualche malattia e non sarebbe
mai diventato grande; non avrebbe mai potuto lottare con Haru per
decidere chi era il più forte, avrebbe lasciato la sua mamma e il suo
papà.
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