Solo Dio è innocente – Michele Navarra

SINTESI DEL LIBRO:
Il caldo era una presenza quasi fisica, nonostante fossero le otto
di sera e il sole avesse già cominciato la sua lenta discesa verso la
montagna del Gennargentu. Erano stati giorni di afa eccezionale, nei
quali le temperature non erano scese al di sotto dei trenta gradi
all’ombra. Un clima africano, abbastanza insolito a quelle latitudini,
anche ad agosto.
Davide Rutzu però c’era abituato. A lui il gran caldo non aveva
mai dato troppo fastidio, avvezzo com’era a frequentare fin da
piccolo per ore la campagna del Nuorese, lavorando duramente
sotto il sole cocente. Forte dei suoi diciannove anni, che avrebbe
compiuto di lì a qualche mese, se ne infischiava della temperatura,
torrida o glaciale che fosse, convinto della propria invulnerabilità. A
diciannove anni non si ha paura di nulla, o almeno non se ne
dovrebbe avere.
Davide però di qualcosa aveva paura. Forse non si trattava di
paura vera e propria, quanto di una fastidiosa sensazione
d’inquietudine, un sentimento sotterraneo e strisciante che lui ben
percepiva e che aveva l’onestà di non negare, quantomeno a se
stesso. Con gli altri, invece, era diverso. In pubblico, alla presenza di
altre persone, soprattutto dei suoi amici, non avrebbe mai mostrato
segni di debolezza, non avrebbe mai ammesso di temere qualcosa o
qualcuno.
La causa della sua inquietudine aveva un nome e un cognome.
Un nome che ciascuno nella sua famiglia conosceva più che bene,
nonostante fossero davvero rare le volte in cui veniva pronunciato.
Mario Serra, Mario il bastardo, Mario l’assassino. L’uomo che, a
causa di un muretto a secco costruito nel punto sbagliato, di un
confine superato di nemmeno mezzo metro, dieci anni prima aveva
ammazzato il loro zio appena trentaseienne e l’aveva fatta franca. Il
maledetto che aveva atteso Efisio Rutzu all’uscita del suo
magazzino in campagna, acquattato nell’ombra come un serpente
velenoso pronto a mordere l’ignaro passante. Il vigliacco che aveva
distrutto la faccia dello zio Efisio con un colpo di doppietta, rendendo
quasi impossibile il riconoscimento del cadavere all’obitorio. Davide
ricordava ancora le urla disperate della povera zia che implorava di
poter salutare per l’ultima volta il marito, e la fermezza quasi crudele
di suo padre nell’impedirglielo, perché mai avrebbe consentito alla
cognata di vedere il volto devastato e irriconoscibile del mite e
gioviale fratello più piccolo.
Così andavano le cose da secoli a Fonni, il paese più in alto della
Sardegna, annidato ai piedi del massiccio del Gennargentu e
distante pochi chilometri dagli impianti di risalita di Bruncu Spina, la
‘cima del cardo’, l’unica stazione sciistica dell’isola.
Sebbene ormai sempre più di rado, veniva ancora applicato un
antico codice che come un ordinamento giuridico parallelo
consentiva la vendetta per un torto subito. Una legge non scritta,
fatta di regole tramandate di padre in figlio, comportamenti vincolanti
che seguivano i concetti di balentia e onore, che mai consentivano al
sangue versato di cadere in prescrizione come a volte capitava nei
tribunali.
Nel corso degli ultimi trent’anni, qualcuno aveva provato a
ribellarsi, a spezzare le catene dell’assurdo e anacronistico sistema
di morti ammazzati e vendette trasversali, spesso compiute anni
dopo l’uccisione o il torto subito, una micidiale mistura di odi e
rancori covati per generazioni, di omicidi cominciati nella notte dei
tempi per motivi inconcepibili per il resto del mondo, come il furto di
alcuni capi di bestiame o la restituzione di un gregge in cattive
condizioni. In qualche caso, nemmeno i ragazzini erano stati
risparmiati da quella sorte amara, magari perché testimoni di un
regolamento di conti e quindi doppiamente pericolosi per il rischio di
soffiate e future vendette, una volta che avessero avuto l’età per
compierle.
I Rutzu, o quantomeno una parte della famiglia, avevano provato
a districarsi da quello schema, senza troppa convinzione in verità,
ma almeno ci avevano provato. L’avevano fatto proprio in occasione
dell’omicidio di Efisio, poi però si erano dovuti arrendere alla civiltà
dell’ordinamento giuridico, ai principi cardine del codice penale
italiano, secondo cui l’imputato può essere condannato soltanto in
presenza di prove certe della sua colpevolezza. La Corte d’assise
aveva ritenuto che di prove certe in quel caso non ce ne fossero, o
che comunque quelle poche che erano emerse fossero incerte e
contraddittorie; così Mario Serra era stato assolto. La conclusione di
quello stupido circo giudiziario, di quella ridicola messa in scena, era
sotto gli occhi di tutti: un Serra aveva ammazzato un Rutzu e se ne
andava in giro per il paese libero come l’aria, a vantarsi di ciò che
aveva fatto. Con tanti ringraziamenti a giudici e carabinieri.
Quindi era stato necessario prendere le opportune contromisure,
tornare alle tradizioni, e a finire morto ammazzato era stato Gianni
Serra – forse il fratello sbagliato, anche se per i Rutzu non c’erano
Serra sbagliati da ammazzare – la cui vita era stata interrotta
anzitempo da un paio di fucilate. Il millenario codice barbaricino,
secondo cui sangue lava sangue, era stato applicato anche in
quell’occasione, in modo chirurgico e spietato, perché se l’omicidio
di un congiunto non fosse stato punito sarebbe stato un disonore
gravissimo per tutta la famiglia, un marchio d’infamia indelebile sul
suo nome. Tanto era lenta e impacciata la giustizia dei tribunali,
tanto era feroce e inesorabile quella in vigore da sempre in quelle
terre. Così, al posto di Mario aveva pagato Gianni, il fratello
maggiore, che peraltro si diceva avesse partecipato alla spedizione
contro Efisio e poi fornito un alibi falso a Mario. “Non vi è bugiardo
senza testimoni”, recitava l’antica saggezza popolare. Adesso però
le bugie che Gianni aveva raccontato al giudice avrebbe potuto
ripeterle soltanto ai vermi, perché qualcuno – rimasto ignoto solo alla
giustizia dello Stato – aveva provveduto a spedirlo sottoterra con
due scariche di pallettoni alla schiena, mentre tornava ubriaco da
una delle sue consuete sortite al bar del paese.
La vendetta era lenta ad arrivare, doveva percorrere lunghe
distanze e si muoveva sopra un carro trainato da buoi, quindi il più
delle volte poteva impiegare molto tempo per raggiungere la sua
destinazione finale. Ma arrivava sempre, puntuale e implacabile
come la morte, con cui viaggiava a braccetto.
Per l’omicidio di Gianni ancora non aveva pagato nessuno,
sebbene tutti in paese fossero consapevoli che non si sarebbe
dovuto aspettare ancora a lungo perché giustizia venisse fatta. Era
soltanto una questione di tempo: Mario Serra aveva già ucciso una
volta e non avrebbe avuto difficoltà a farlo di nuovo e a vendicare il
fratello assassinato.
Era proprio questo a turbare la serenità di Davide Rutzu mentre,
seduto al bar della piazza centrale del paese in compagnia di alcuni
amici, osservava Mario sorseggiare una birra, proprio davanti al suo
tavolo.
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