Sesso, Hawaii e cliché – Barbara Parodi

SINTESI DEL LIBRO:
Se esistesse un incipit adatto a questa storia, parafrasandone uno
famoso, sarebbe il seguente:
È una verità universalmente accettata che se nella casella della
posta trovi una busta quadrata in carta spessa e di colore avorio
qualcuno che ti conosce ti vuole male.
Era questo a cui pensavo, osservando la busta appoggiata sul
tavolo, dalla comoda postazione del mio divano. Mio perché, a
dispetto di quanto avrebbe dichiarato Leonardo a distanza di mesi
dalla nostra separazione, era stato un mio acquisto al quale lui
aveva partecipato con un è orribile, ma fai tu. Non ho mai capito
cosa ci trovasse di tanto brutto nella meravigliosa tonalità blu puffo.
Insomma, studiavo quella busta avorio da dieci minuti cercando di
capire chi mi volesse così male da invitarmi a un matrimonio. Io che
odiavo qualunque manifestazione di amore in pubblico; io che ero
single e non avrei saputo con chi andarci.
Forse era proprio quest’ultimo problema la vera questione del mio
disappunto: avrei dovuto partecipare alla felicità di qualcuno senza
l’appoggio di un uomo al mio fianco. Sarebbe stato esattamente
come gridare al mondo che ero stata mollata e avrei dovuto
rispondere a domande orribili e senza un minimo di carità cristiana
come: Ma come mai? Eravate una così bella coppia! che avrei
preferito evitare buttandomi da un dirupo con solo un elastico fra me
e la morte certa.
Perché se era vero che la gente adorava sposarsi in estate, era
altrettanto indiscutibile che amava farsi gli affari degli altri e godere
delle loro disgrazie.
No, più osservavo quella dannata busta più mi convincevo che
l’unica, insindacabile e onesta decisione da prendere fosse far
cadere l’invito nel cestino e fingere di non averlo mai ricevuto. Me la
sarei cavata con un generico Ma dai, peccato che l’invito sia stato
perso dalle Poste, perché dare la colpa al postino era una scusa
sempre valida, soprattutto in Italia. Ogni giorno venivano smarrite
centinaia di buste quindi perché non sarebbe stato credibile? E poi
non ci volevo andare al matrimonio, di chiunque esso fosse. Non
avevo voglia di trascorrere una giornata a sudare, a brindare, a
chiacchierare e sfondarmi di cibo per la felicità di qualcuno che, con
ogni probabilità, mi aveva invitata solo per fare numero.
E poi nemmeno ci credevo nei matrimoni. Ero convinta che il
matrimonio fosse la tomba dell’amore; convinta che non appena due
decidevano di sposarsi iniziavano i problemi: bugie, litigate, perdita
di fiducia e di comprensione, e alla fine quei due poveri diavoli si
trovavano nell’ufficio di un avvocato e si guardavano come due
sconosciuti.
Il fatto che la mia storia di nove anni fosse finita da circa quattro
mesi, ovviamente, non aveva nulla a che fare con quella visione.
Non c’entrava affatto che Leonardo mi avesse mollata per un’altra
«più seria». Anzi, avrei detto sotto giuramento che non credevo nei
matrimoni ben prima di vedere il mio ex che lasciava l’appartamento
che avevamo scelto insieme, con le valigie che io gli avevo regalato
per un compleanno, indossando il dopobarba che tanto mi faceva
sentire a casa dopo una giornata di lungo lavoro.
No, io i matrimoni non li sopportavo ben prima, altroché. E
Leonardo non c’entrava nulla.
Così, buttare l’invito era e rimaneva l’unica soluzione a tutti i miei
problemi. Nessun rimpianto, nessun senso di colpa. Nessuna nuova,
buone nuove si diceva, giusto? Perciò se io avessi finto di non averlo
mai ricevuto sarebbe stata la scelta definitiva.
Anzi, a ben vedere, il senso di colpa avrebbe dovuto provarlo la
bastarda che mi aveva mandato la busta – perché sentivo in fondo al
cuore che fosse una donna ad avermi invitata – e che mi aveva fatta
piombare in uno stato di depressione da dolci, uno di quelli che puoi
affrontare solo con la crema di cioccolato o una mega confezione di
gelato alla vaniglia mentre guardi film romantici alla TV. Avrei messo
su qualche chiletto per poi sentirmi doppiamente in colpa.
No, quell’invito era una disgrazia.
«Sì, alzati e butta la busta. Su, senza pensarci oltre.»
Me lo dissi ad alta voce, come se fossi stata un’amica. Appoggiai
le mani sulle ginocchia e mi sollevai dal divano, evitando di dire un
Oplallà solo per amor proprio. Camminai fino al tavolo, presi l’invito
infame, andai in cucina e lo buttai.
Puff.
Lo osservai ondeggiare leggermente nella caduta, come fosse una
barchetta che beccheggiava lungo i Navigli, fino a quando non si
arrestò fra i pezzi della scatola della pizza d’asporto e una
confezione di succo all’ananas in tetrapak.
«Ecco fatto» trionfai e accesi la macchina del caffè per brindare a
quel gesto coraggioso e necessario. Sospirai sentendomi libera.
Avevo preso la scelta giusta e sapevo che se non l’avessi buttato
avrei rimpianto quel momento per tanto tempo.
Mentalmente passai in rassegna tutte le operazioni che avrei
dovuto sostenere per partecipare al matrimonio: comprare l’abito
adatto, cercare la pettinatura, farmi fare il trucco, scegliere le scarpe.
E ancora, andare in giro come una ciuccia per negozi, pregando i
Santi di avere un’idea originale per il regalo e sperando che non ci
fosse una lista di nozze che detestavo in modo particolare. Alla fine
avrei optato per un set di bicchieri anonimo o per una zuppiera.
Sorrisi all’idea.
Quanto era inutile da uno a cento una zuppiera? Novanta?
Sicuramente veniva immediatamente dopo lo spremiagrumi, magari
con forme esilaranti tipo la paperetta o una tartaruga.
L’ultimo matrimonio a cui avevo partecipato era stato quello di una
cugina lontana sia geneticamente che geograficamente. Mi avevano
invitata nella bellissima Ischia dove rimasi per quattro giorni.
Una bella vacanza, dovevo ammetterlo, ma il matrimonio…
Avevano fatto la lista di nozze presso un negozietto proprio al
centro. C’ero andata così come si va sempre: con il buonissimo e
nobile intento di prendere qualcosa che avrebbe fatto piacere
ricevere. Quando la ragazza mi mise davanti la lista sgranai gli
occhi: tutti quelli più costosi erano stati già fatti – poco male, avevo
pensato – ma ciò che rimaneva era una sequela lunghissima di cose
inutili da pochi euro. Per pareggiare la mia permanenza sull’isola
avrei dovuto fare una scatola in pieno stile negozio on line e
ammassare tutte le cianfrusaglie fra palline di polistirolo. C’erano un
cavatappi, una coppia di sale e pepe che mi parevano due pinguini,
la classica zuppiera, una friggitrice, cose inutili e poi l’occhio mi
cadde su una composizione in vetro. Ricordo che l’osservai a lungo
sapendo bene che non poteva essere ciò che i miei occhi vedevano.
«Un bellissimo trittico di orchidee Phalenopsis in vetro soffiato» mi
disse la ragazza notando la mia attenzione. Orchidee… A me
sembravano tre enormi vagine. Scoppiai a ridere, tenendomi per me
il pensiero. Alla fine, girai per il negozio e scelsi un servizio da tè.
«Signora, c’era già un servizio da tè nella lista» mi fece notare la
ragazza. Sorvolai sul signora, non mi sembrava giusto fare
l’antipatica.
«Vorrà dire che ne avranno due. Che male può fare?»
La ragazza mi guardò con sufficienza.
«Di solito viene stilata una lista proprio per evitare doppioni.»
Fu il tono con cui lo disse che mi fece indisporre. Come se fossi
una demente, ecco.
«Senta, io non spendo soldi per un trittico di vagine in vetro
soffiato. Quel servizio da tè» annunciai indicandolo. «Bancomat.»
Sillabai ogni parola e, avrei potuto giurarlo in tribunale, al vagine la
ragazza ebbe un sussulto. Alla fine uscii dal negozio con il mio
servizio da tè, fregandomene della stracazzo di lista di nozze.
Insomma, tornando a noi, mi stavo godendo il caffè, ripensando a
ogni valida motivazione per cui avevo cestinato l’invito al matrimonio
quando il cellulare prese a squillare. La suoneria era quella di
Mamma mia! quindi era Sara, la mia migliore amica.
«Ohi, Mina!»
La voce squillante di Sara mi travolse come un gavettone dritto in
faccia e c’erano solo due occasioni nelle quali sfoggiava quelle
frequenze da cetaceo: un problema che avrei dovuto risolvere o un
favore che avrei dovuto fare.
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