Sangue del mio sangue – Salvo Toscano

SINTESI DEL LIBRO:
La routine è capace di uccidere i grandi amori. Me l’ero sentito dire
tante volte. Per lo più da donne che mi usavano per assestare il
colpo di grazia alle loro boccheggianti relazioni. Poi era arrivato il
giorno in cui lo avevo sperimentato sulla mia pelle. E non era stato
un bel giorno.
Sono un egocentrico bastardo e di questo, a trentacinque anni
suonati, ho ormai preso atto. Eppure, persino un gaudente come il
sottoscritto un grande amore l’ha avuto. Con alti e bassi, certo, ma
senza mai metterlo in discussione.
Io amavo il mio lavoro. L’ho amato da sempre. Quando battevo i
campetti sterrati della seconda categoria per scrivere tabellino più
dieci righe di partite assurde, io ero un ragazzino felice. Quando a
mezzanotte mi toccava scapicollarmi nei luoghi più impensati per
andare a scambiare quattro chiacchiere con uno sbirro a due passi
da un morto ammazzato di fresco, sarà una cosa cinica, ma io ero
un uomo felice. Quando di prima mattina, magari dopo una
nottataccia
passata ad accoppiarmi con qualche amica
particolarmente esigente, mi svegliava una telefonata che mi
intimava di precipitarmi sul luogo del delitto, ebbene sì, io, anche se
mi capitava di affermare il contrario, in fondo al cuore ero felice.
Il mio non è un mestiere come gli altri. Se non lo ami, e parlo di un
amore sconsiderato, dopo i primi mesi scappi via, delegando ad altri
malati di mente una vita strampalata come quella del giornalista.
Però io questo mestiere lo amavo. Come ammetto di non avere mai
amato nessuna delle donne che mi è capitato di incrociare nella vita.
Funzionava così. Poi qualcosa s’è rotto.
Per provare a spiegare come arrivai all’inizio della fine, forse è
opportuno spendere due parole su cosa significhi lavorare in un
quotidiano. La gente non sa praticamente nulla del lavoro del
giornalista. Ora, io non pretendo che una persona normale, che fa
un qualsiasi mestiere rispettabile, sia tenuta a sapere cos’è un
occhiello o una spalla, ci mancherebbe. Però alcune domande che
mi sento rivolgere mi lasciano particolarmente interdetto. Tipo
quando al termine di un pranzo domenicale luculliano io mi congedo
dalla compagnia, con la morte nel cuore, per andarmene mesto a
lavorare e puntualmente arriva qualcuno che con un’espressione a
metà fra il sorpreso e il compassionevole si prende la briga di
domandare: perché, lavori anche di domenica? Ma benedetto figlio
di Maria, davvero in tutti questi anni non ti sei mai accorto che i
giornali escono pure di lunedì? Chi li fa, secondo te? Si
autoproducono? O magari pensavi che li confezionassimo il sabato
pomeriggio facendoci rivelare da un indovino cosa sarebbe accaduto
l’indomani? Ecco, sono queste le cose che irrobustiscono una mia
certa atavica tendenza alla misantropia.
i
Già, i giornalisti dei quotidiani lavorano di domenica. Quando la
gente normale si riposa, si incontra, vive, insomma, i giornalisti
stanno chiusi alla luce del neon davanti a un computer. E sempre
davanti allo stesso computer trascorrono le serate dei giorni feriali,
fino alle dieci, o magari ancora più tardi, mentre il resto dell’umanità
mangia pizze, beve birra, consuma aperitivi e si dedica a quella che
convenzionalmente si suole chiamare vita sociale. Ecco, quella cosa
lì
giornalisti, almeno quelli dei quotidiani, non ce l’hanno. Loro
lavorano quando gli altri risposano e quando gli altri lavorano non
hanno un cazzo da fare. È soprattutto per questo che frequentano
per lo più giornalisti, si sposano con giornaliste e le tradiscono con
altre
giornaliste. Nemmeno le bestie dello zoo conducono
un’esistenza tanto schifosamente prevedibile.
Fin qui siamo alla componente fisiologica di un mestiere assurdo.
Il punto è che per mantenere in equilibrio la bilancia, un individuo
che deve sobbarcarsi questo stile di vita da reietto ha bisogno di
trovare in qualche modo delle gratificazioni che lo preservino
dall’abbrutimento. Ma quello in cui questo lavoro s’è trasformato, nel
mio giornale forse più che altrove, è qualcosa che difficilmente può
dare gratificazioni. Diciamo la verità: io confesso di fare fatica a
capire perché la gente oggi debba spendere denaro per acquistare
questi giornali. Sono brutti, omologati, superficiali. E non informano
proprio su niente. L’altra faccia di questo nulla che si può sfogliare
ogni giorno è quello che non si vede, quello che vive, o forse
sarebbe meglio dire muore, dentro le redazioni. La mia ormai
somiglia sempre di più al reparto di Qualcuno volò sul nido del
cuculo. Ma non passa mai un energumeno indiano a sfasciare la
finestra con la fontanella per liberare i compagni derelitti.
Le mie giornate procedevano amorfe tra colleghi scazzati, svuotati
e ingrigiti. Giornalisti trasformati in impiegati di concetto, disciplinati
travet con le chiappe inchiodate alla sedia e lo sguardo affogato
nello schermo del pc.
In questo contesto da depressione ero riuscito a stringere i denti
per un pezzo. Il mio posticino di cronista di nera mi faceva
comunque sentire un privilegiato. Almeno scrivevo, lusso che la
maggior parte dei miei colleghi relegati al desk non poteva
permettersi. Anche di questo il grosso della gente non ha idea. E in
effetti è difficile dovere spiegare a qualcuno che la maggior parte dei
giornalisti dei quotidiani oggi non firma quasi mai un articolo, ma
lavora impastando o correggendo roba scritta da altri, partorendo
titoli, sommari e didascalie e controllando i lanci di agenzia.
Provavo a tenere duro, insomma. E mi dicevo che tutto sommato
le cose potevano andare peggio. E non solo perché poteva piovere,
per dirla alla Mel Brooks.
Finché un giorno, un insulso giorno d’autunno, non mi accadde
qualcosa di impensabile. Un evento che scatenò nel mio cervello
una deflagrazione devastante.
Tutto era cominciato il giorno prima. La Catturandi aveva scovato
un pezzo grosso, un latitante di mafia che da anni s’era dato alla
macchia. Il blitz era scattato di buon mattino, in un casolare alle
porte di Palermo. La notizia della cattura c’era arrivata quasi in
tempo reale: i poliziotti non vedevano l’ora di farlo sapere al mondo
intero e in effetti, dopo mesi e mesi di nottate e appostamenti, un po’
di passerella se l’erano meritata, santi picciotti.
Mi ero precipitato in Questura insieme ai soliti colleghi, ai soliti
fotografi, al solito bordello. Insomma, per farla breve, non era stata la
classica giornata X, di quelle che fanno volume. Si era scritto, e
parecchio: lenzuolate di giornale, un lavoro ben fatto, uno di quelli
che per un pezzo ti rimettono in pace con questo porco mestiere. O
almeno così avrebbe dovuto essere.
E invece.
La sera ero rientrato a casa tutt’altro che elettrizzato. Prima avevo
provato a darmi conforto con un po’ di Radiohead. Ma nemmeno
High and Dry, che è da sempre la mia preferita, era riuscita a
riportarmi a un umore decente. Poi, avevo ripiegato sulla Nutella. Tre
morsi e la fetta di pane era rimasta lì. Pessimo segnale. Alla sesta
sigaretta in un’ora realizzai che bisognava tentare il tutto per tutto e
misi su a palla Sergeant Pepper’s. Mi arresi a metà di Getting Better,
mentre Paul cantava che le cose stavano andando sempre meglio.
Sempre meglio ’sta minchia, mi dissi, senza offesa per il baronetto.
Trangugiai una pasticca e mi buttai sul letto, ancora vestito.
L’indomani sarebbe stata un’altra gran bella giornata di lavoro.
C’era da approfondire la storia del latitante, bisognava scavare un
po’ in profondità, tentare di ricostruire il passato e pronosticare il
futuro, quel genere di cose che un tempo sapevano darmi una
scarica di adrenalina. E invece, quella mattina, scesi giù dal letto di
malavoglia alle dieci, sbirciai nello specchio la mia faccia sconvolta e
i miei vestiti stropicciati e decisi di fare qualcosa che solo pochi anni
prima non avrei mai immaginato di fare.
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