Romanzo fantasma – Arthur Conan Doyle

SINTESI DEL LIBRO:
«Gotta o reumatismo, dottore?» domandai.1
«Un poco di entrambi, Mr Smith» disse lui.
«E di grazia, signore, qual è l’esatta differenza tra i due?»
continuai, sotto l’impulso naturale di ottenere un po’ di scienza in
cambio dello spiedo rovente che mi stava trafiggendo il piede destro.
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«Be’» disse il buon medico, tamburellando sulla sua tabacchiera di
tartaruga,
«una è un castigo e l’altro è una disgrazia – uno è nelle
mani della Provvidenza, e l’altra nelle sue. Lei non può comandare il
tempo che governa il suo reumatismo, ma può comandare i suoi
appetiti, che governano la sua gotta.»
«Dunque» dissi io «questo dolore diabolico che ho nel piede è
quella forma ibrida di tortura nota come gotta reumatica, che unisce
gli inconvenienti di entrambi i mali a un tocco di malignità tutto suo.»
«Di sicuro lei soffre di gotta reumatica» osservò il dottor Turner.
«Che si cura soltanto col colchico?»3
«E con gli alcali» disse il dottore.
«E la flanella?»
«E il papavero» disse il dottore.4
«E l’astinenza?»
«E con una settimana di riposo totale.»
«Una settimana!» tuonai, in parte per l’eccitazione e, francamente,
reagendo a una fitta che mi saettò dentro il piede. «Lei si immagina
seriamente, dottore, che io rimanga disteso su questo divano per
una settimana?»5
«Senza il minimo dubbio» disse quello con flemma. È
stupefacente quanto questi dottori riescano a essere calmi e liberi
dalle debolezze umane, fin quando non tocca a loro di essere i
pazienti, e allora alzano la voce e strillano come i migliori di noi.
«Una settimana di riposo è essenziale per la sua cura.»
«È molto dura» borbottai. «Io sono un tipo da aria aperta, e da
cinque anni non passo un giorno chiuso dentro casa.6
Ma se
migliorassi quanto basta per camminare senza dolore potrei uscire,
non è vero?»
«Mio caro Mr Smith» disse il dottor Turner, arrotolando lo
stetoscopio e prendendo il suo lucido cappello a tesa larga, «se lei
vuole
correre il rischio della pericardite, dell’endocardite,
dell’embolia, della trombosi e di un ascesso metastatico, esca pure.
Altrimenti, rimanga qui dove si trova.»
Come argomento era inoppugnabile. Sentii che solo una
conflagrazione o un terremoto sarebbero riusciti a spostarmi dal
divano. Quei soli nomi mi fecero scendere un fremito e un tintinnio
lungo il sistema. «Non un’altra parola, dottore» dissi. «Affronterò le
mie infermità una alla volta. Non sono un egoista. Perché dovrei
avere tutte quelle che ha detto quando tanti poveracci non hanno
nemmeno un po’ di mal di schiena? Ma per amor del Cielo, che ne
farò di me stesso? Morirò di noia.»
«Neanche per sogno» rispose lui briosamente, con la mano sulla
maniglia della porta. «Come dice il poeta? “La mente è il suo proprio
luogo e dentro se stessa può fare un inferno del paradiso, un
paradiso dell’inferno.”7
Lei deve riunire intorno a sé i suoi libri e farsi
una scorpacciata letteraria per compensare l’astinenza corporea. O
meglio ancora, prenda carta, inchiostro e penna, e macini qualcosa
di suo. È stato detto che ogni essere umano ha dentro di sé la
possibilità di produrre un buon libro. Questo è evidentemente falso,
ma può esserci ugualmente in giro qualche “muto inglorioso Milton”
che sarebbe fiorito in poeta o romanziere se fosse stato piantato nel
terreno adatto.»
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«Può contarci» dissi io, sentenziosamente, «se uno ha talento,
questo troverà il modo di manifestarsi. Il gelo della povertà non
riuscirà mai a soffocarlo del tutto.»
Il dottore lasciò la maniglia e fece un passo indietro nella stanza,
perché era un tipetto dogmatico, e come naturale conseguenza
molto intollerante del dogmatismo altrui.
«No, ma ci riuscirà quello della ricchezza» disse. «La mancanza di
denaro è il sole che brilla sul genio bisognoso e riscalda le sue forze
latenti fino a farle germogliare. Per me il possesso di una rendita è
una delle maggiori disgrazie che possano capitare a un giovane di
talento.» Era talmente trasportato dal suo argomento che fece un
altro passo avanti e si abbatté nella poltrona. «Quanti ragazzi
promettenti ho conosciuto da studente, che avevano dentro quanto
sarebbe bastato per innalzarsi fino ai più alti onori della loro
professione. E invece il possesso di cento o duecento miserabili
sterline l’anno ha rimosso l’incentivo principale per il lavoro e li ha
portati a gingillarsi in un ignobile dolce far niente, mentre dei giovani
spiantati con la metà del loro cervello, spinti dallo sprone aguzzo
della necessità, li hanno scavalcati, e ben presto sono approdati a
una rendita annuale equivalente al capitale di quelli. Se ciò è vero
per la medicina, lo è ancor di più per tutto quel che so della
letteratura. Sembra che per gli scrittori migliori e di maggior
successo imbarcarsi in un nuovo lavoro sia uno sforzo doloroso.
Carlyle parla di tornare alla sua scrittura “non come un guerriero che
scende nel campo di battaglia, ma come uno schiavo spinto a
frustate perché riprenda il suo compito”. Se questa è la sensazione
di un uomo eminentemente di successo, quanto pesante e faticosa è
la routine obbligata del praticante che non ha il sostegno dei ricordi
di antichi trionfi. Io le dico che se un uomo non è costretto a farlo,
non lo fa, a meno invero che costui sia un qualche lusus naturae
come Macaulay,
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che giocava con le penne quando era ancora nella
stanza dei bambini e preferiva un calamaio a un’arca di Noè. Un
uomo che ha cervello e attitudine può fallire, ma un uomo con
cervello e povertà non può che avere successo.»
«Così dissero a Lord Southampton a proposito di suo figlio»
osservai. «Ricordate la risposta di Milord? “Se la Provvidenza” disse
“gli troverà il cervello, io mi occuperò della povertà.”»
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Il dottor Turner si fece una buona risata di cuore, che non fu meno
energetica della più tonica delle sue prescrizioni. «Doveva avere
anche il cervello, con un padre così spiritoso» osservò. «Ma io devo
assolutamente scappare via. Guardi qua!» Mostrò una lunga
colonna di nomi. «Bisogna che li abbia visti tutti prima di tornare a
casa. Arrivederci! Spero di trovarla meglio domani. Un poco di
whiskey irlandese o del vino bianco secco, se deve avere degli
stimolanti.» Si chiuse la porta alle spalle e non ci fu più.
Ecco un uomo, pensai io, mentre ascoltavo il brontolio morente
delle ruote della sua carrozza, che compie un’infinita quantità di
bene nel mondo. Voglio ridurla in cifre. Immaginiamo che veda
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quaranta pazienti al giorno – che è un calcolo abbastanza moderato
per un uomo con una buona clientela: questi farebbero 14600
l’anno.
E supponendo che stia in attività per trentacinque anni, il
che di nuovo è una media onesta, il numero totale delle sue visite e
consultazioni arriverebbe a 511000. Di questo mezzo milione di
persone la grande maggioranza, supporremo caritatevolmente, avrà
ricevuto benefici dai suoi consigli e dalle sue prescrizioni. Che
colossale quantitativo di bene raggiungerà dunque questo allegro,
poco invadente mortale prima di avere concluso la sua carriera. Avrà
ottenuto altrettanto Sua Grazia di Canterbury – o Sua Santità al
Vaticano? Parola mia, quel cappello quadrato da professionista
dovrebbe suscitare altrettanta reverenza della mitra o della tiara, se
solo guardassimo oltre la forma delle cose, e arrivassimo alle cose
stesse.
C’è la vera funzione del veggente che san Tommaso di Chelsea
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predicò per tanto tempo e con tanta convinzione. Benedetta la sua
ruvida ombra, dico io, dovunque si trovi! Se mai uomo incarnò il
grande vecchio tipo camminando dritto e parlando senza paura e
praticando egli stesso ciò che predicava agli altri, questi fu
certamente il figlio del muratore di Ecclefechan. Di tutti i tristi episodi
letterari gli attacchi contro la memoria del grand’uomo, quando la
terra sulla sua tomba era ancora bruna, furono per me i più
deprimenti. Gli sciacalli tacquero abbastanza finché il vecchio leone
visse, ma quando egli giacque impotente e muto nessuno fu più
troppo piccolo per non indirizzargli un pizzico o un buffetto.
Oh, questi mosconi della letteratura! Quale innato amore delle
carogne è questo che li fa sempre sciamare sugli aspetti meno
salubri di una grande mente! Che un uomo abbia cinquanta delle
virtù più nobili e un unico minuscolo difetto, subito arriva il critico
moscone e si appollaia su quell’unico vizio e produce una tale
messe di libelli e articoli che il lettore casuale non riesce più a
vedere altro aspetto del carattere di quell’uomo che il meno
favorevole. Addison era un uomo stimabile, dal cuore tenero – «ma
un ubriacone» ronza il moscone. Burns era generoso e di mente
nobile – «ma dissoluto!» ronza il moscone. Coleridge ci ha lasciato
parole che spirano lo spirito stesso della virtù. «Oppio! Oppio!» ronfa
il
moscone. Carlyle era un profeta dell’ultim’ora. «Ma che
caratteraccio!» gridano innumerevoli sciami di mosconi.
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