Ogni respiro – Nicholas Sparks

SINTESI DEL LIBRO:
IL mattino del 9 settembre 1990, Tru
Walls uscì di casa e osservò l’alba
infuocata all’orizzonte. Il terreno
sotto i suoi piedi era pieno di crepe e
l’aria secca; non pioveva da più di
due mesi. Uno strato di polvere gli si
depositò sugli scarponi mentre
raggiungeva il pick-up vecchio di
più di vent’anni. Anche quello era
impolverato, dentro e fuori. Oltre la
recinzione elettrificata, un elefante
strappava i rami da un albero caduto
poche ore prima. Tru non vi badò.
Era parte del paesaggio che
conosceva da quando era nato – i
suoi antenati erano emigrati lì
dall’Inghilterra più di un secolo
prima – e non ne fu impressionato,
proprio come un pescatore che
avvista uno squalo mentre tira le
reti. Dopo una vita trascorsa sotto il
sole, Tru aveva il fisico slanciato, i
capelli ancora scuri e un reticolo di
rughe agli angoli degli occhi; a
quarantadue anni, gli capitava di
domandarsi se fosse stato lui a
scegliere la vita nella savana o se
invece non fosse stato il contrario.
Il campo era silenzioso; le altre
guide, compreso Romy, il suo
migliore amico, erano partite di
buon’ora per raggiungere la struttura
principale, dove avrebbero raccolto i
turisti provenienti da tutto il mondo
per portarli in giro nella savana. Tru
lavorava al Safari Lodge del parco
nazionale di Hwange ormai da dieci
anni; in passato aveva condotto una
vita più nomade, cambiando posto
ogni due anni man mano che
acquisiva esperienza. Come regola,
scartava
le
strutture
che
consentivano la caccia, scelta che
suo nonno non avrebbe condiviso. Il
nonno si vantava di aver ucciso più
di trecento fra leoni e ghepardi nel
corso della vita, per proteggere le
mandrie dell’immensa fattoria di
famiglia nei pressi di Harare, dove
Tru era cresciuto; anche il patrigno e
i
fratellastri
di
Tru stavano
velocemente raggiungendo lo stesso
traguardo. La sua famiglia non si
occupava solo di bestiame, ma
anche di agricoltura, e produceva
più tabacco e pomodori di qualsiasi
altra fattoria del Paese. Per non
parlare del caffè. Il bisnonno aveva
lavorato con il mitico Cecil Rhodes– proprietario di miniere, politico ed
emblema
dell’imperialismo
britannico – accumulando terreni,
soldi e potere già alla fine
dell’Ottocento, prima che il nonno
di Tru prendesse le redini degli
interessi di famiglia.
Il nonno, conosciuto anche come il
Colonnello,
aveva
ereditato
un’azienda florida, ma dopo la
Seconda guerra mondiale gli affari
di famiglia erano cresciuti in
maniera esponenziale, facendo dei
Wells una delle più ricche dinastie
del Paese. Il nonno non aveva mai
capito perché Tru avesse sentito il
bisogno di abbandonare quello che
ormai era diventato un vero e
proprio impero industriale e una vita
incredibilmente lussuosa. Prima di
morire – al tempo Tru aveva ventisei
anni – era stato a trovare il nipote
nella riserva dove lavorava. Lui
aveva dormito nella struttura
principale invece che nel campo
delle guide, ed era rimasto scioccato
dalle condizioni in cui Tru viveva.
Aveva ispezionato quella che per lui
doveva essere poco più di una
baracca, senza isolamento termico
né telefono. L’illuminazione veniva
da una lampada a cherosene e un
piccolo generatore alimentava un
frigorifero
in
miniatura.
Una
sistemazione lontana anni luce dalla
casa dove il nipote era cresciuto, ma
quell’ambiente spartano era ciò di
cui Tru aveva bisogno, soprattutto la
sera, quando un oceano di stelle
riempiva il cielo. In effetti, aveva
fatto un salto di qualità rispetto alle
strutture in cui aveva lavorato in
precedenza; in due di queste aveva
dormito in tenda. Lì, se non altro,
c’erano l’acqua corrente e la doccia,
un lusso per lui, nonostante il bagno
fosse in comune.
Quel mattino, Tru prese con sé la
chitarra
infilata
nella
vecchia
custodia, un portapranzo e un
thermos, una manciata di disegni
fatti per il figlio Andrew e uno zaino
con qualche cambio di vestiti,
articoli da bagno, un album da
disegno con matite colorate e
carboncini e il passaporto. Sarebbe
stato via più o meno una settimana,
ma aveva calcolato che non gli
sarebbe servito nient’altro.
Il pick-up era parcheggiato sotto un
baobab. Alcuni colleghi erano
ghiotti dei suoi frutti dalla polpa
disidratata.
Li
mangiavano a
colazione, mescolati al porridge, ma
a lui non erano mai piaciuti. Gettò lo
zaino sul sedile anteriore e controllò
il pianale per assicurarsi che non ci
fosse niente da rubare. Avrebbe
lasciato il pick-up alla fattoria di
famiglia, ma ci lavoravano più di
trecento braccianti, tutti molto
poveri. Qualunque attrezzo lasciato
incustodito sarebbe svanito persino
sotto gli occhi vigili dei famigliari.
Si mise al volante e inforcò gli
occhiali da sole. Prima di accendere
il motore, si assicurò di non aver
dimenticato nulla. Non c’era molto;
oltre allo zaino e alla chitarra aveva
portato con sé la lettera e la foto che
aveva
ricevuto
dall’America,
insieme ai biglietti aerei e al
portafoglio. Sulla rastrelliera alle sue
spalle c’era un fucile carico,
nell’eventualità
che il furgone
avesse un guasto e lui fosse costretto
ad attraversare a piedi la savana, che
restava uno dei luoghi più pericolosi
al mondo, anche per un esperto
come lui. Nel cassettino del
cruscotto c’erano una bussola e una
torcia. Si assicurò che sotto il sedile
ci fosse la tenda, anche questa in
caso di emergenza. Era abbastanza
compatta da poter essere montata sul
pianale del furgone e, pur non
essendo una difesa sufficiente contro
i predatori, sarebbe stato sempre
meglio che dormire per terra. Bene,
pensò. Era pronto a partire.
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