Madame Pylinska e il segreto di Chopin – Eric-Emmanuel Schmitt

SINTESI DEL LIBRO:
Q uand’ero piccolo, a casa nostra viveva un intruso. Da fuori tutti credevano
che la famiglia Schmitt fosse composta da quattro membri, due genitori e
due figli, invece eravamo in cinque. L’intruso dormiva e soggiornava in
salotto, immobile, brontolone, importuno.
Intenti alle proprie occupazioni, gli adulti lo ignoravano, tranne ogni
tanto mia madre che, infastidita, interveniva perché restasse pulito.
L’unica ad avere un rapporto con il seccatore era mia sorella maggiore,
che lo svegliava quotidianamente verso mezzogiorno, cosa alla quale lui
reagiva con un gran chiasso. Io lo odiavo. I suoi brontolii, la sua aria
lugubre, il suo portamento austero e la sua espressione ingrugnata mi
disgustavano. La notte, a letto, mi ritrovavo spesso a pregare che se ne
andasse.
Da quanto tempo stava con noi? Per quanto ricordassi, aveva piantato le
tende a casa nostra da sempre. Bruno, tarchiato, obeso, coperto di
macchie e con i denti ingialliti, passava dal mutismo sornione al fracasso
più molesto. Quando mia sorella gli dedicava un po’ di tempo correvo a
rifugiarmi in camera mia, dove mi mettevo a canticchiare tappandomi le
orecchie pur di non sentire quello che dicevano.
Entrando in salotto lo aggiravo sospettoso lanciandogli uno sguardo
intimidatorio perché rimanesse al suo posto e capisse che mai sarei stato
suo amico, ma lui fingeva di non accorgersene. Eravamo così tenaci
nell’evitarci che la nostra sfida ingessava l’atmosfera. La sera ascoltava le
nostre conversazioni senza commentare, cosa che faceva inorridire
soltanto me, visto quanto i miei si erano abituati alla sua ottusa presenza.
L’intruso si chiamava Schiedmayer ed era un pianoforte verticale, o
meglio un parassita che la nostra famiglia si rifilava da tre generazioni.
Con la scusa di imparare a suonare, mia sorella lo tormentava
quotidianamente. O forse il contrario... Da quel mobile di noce non usciva
una melodia, ma martellate, stecche, cigolii, scale stonate, brandelli d’aria,
ritmi zoppicanti, accordi dissonanti. Tra i vari Marcia turca e Ultimo sospiro
temevo in particolare una tortura che mia sorella chiamava Per Elisa,
scritta da un sadico di nome Beethoven, che mi perforava le orecchie
come il trapano di un dentista.
La domenica in cui festeggiavamo il mio nono compleanno zia Aimée,
una donna bionda, femminile, serica, incipriata, che profumava di iris e
mughetto, indicò l’orco addormentato.
«È il tuo piano, Éric?».
«Ma proprio no!».
«Chi lo suona, Florence?».
«A quanto pare» grugnii storcendo il naso.
«Florence, vieni a suonarci un pezzo!».
«Non ne conosco nessuno» gemette mia sorella, di cui una volta tanto
apprezzai la lucidità.
Zia Aimée si strofinò il mento, allietato da una graziosa fossetta, e
guardò l’indesiderabile.
«Vediamo un po’...».
Mi misi a ridere. L’espressione “vediamo un po’” mi era sempre
sembrata comica, forse perché mia madre se ne serviva spesso nella forma
“vediamo un po’, disse il cieco”.
Indifferente alla mia ilarità, la zia sollevò il coperchio di legno con
delicatezza, come se aprisse la gabbia di una belva, dette un’occhiata ai
tasti e li sfiorò con dita sottili che ritirò subito quando la stanza fu
percorsa da un ringhio: ribelle e minaccioso, il felino si stava inalberando.
Allora, con pazienza, zia Aimée reiterò i suoi cauti approcci. Accarezzò
la tastiera con la sinistra. L’animale emise un suono ovattato. Caso unico,
non recalcitrava, si mostrava quasi cordiale. La zia accennò un arpeggio.
Ricettivo, lo zotico si mise a fare le fusa. Cedeva, si stava facendo
addomesticare.
Soddisfatta, zia Aimée si fermò, squadrò la tigre che aveva trasformato
in micetto, prese posto sullo sgabello e, sicura sia di sé che della bestia,
cominciò a suonare.
Nel salotto soleggiato sorse un nuovo mondo, un altrove luminoso che
galleggiava a strati ondeggiando sereno e segreto, ci immobilizzava, ci
rendeva attenti. Attenti a cosa? Non lo sapevo. Si era verificato un evento
straordinario, lo sbocciare di un universo parallelo, la manifestazione di
un modo di esistere diverso, denso ed etereo, ricco e volatile, forte e
fragile che, pur donandosi, conservava la profondità del mistero.
Nel silenzio carico della nostra meraviglia zia Aimée guardò la tastiera,
le sorrise a mo’ di ringraziamento e sollevò verso di noi occhi che
trattenevano a stento le lacrime.
Mia sorella, avvilita, fissava con aria torva lo Schiedmayer che non le
aveva mai fatto l’onore di suonare così. I miei genitori si guardavano,
sbalorditi che quella specie di baule scuro e panciuto che stava lì da un
secolo potesse dispensare un tale incanto. Quanto a me, mi sfregavo i peli
dritti degli avambracci.
«Cos’era?» chiesi a zia Aimée.
«Chopin, è chiaro».
La sera stessa pretesi che mi facessero prendere lezioni, e una settimana
dopo cominciai a imparare a suonare il pianoforte.
Sentendo quanto la sua complicità con zia Aimée mi avesse sconvolto,
Schiedmayer, trionfante, si mostrò generoso: dimenticò la mia precedente
ostilità e lasciò che mi esercitassi in scale, arpeggi, ottave ed esercizi di
Czerny. Una volta acquisiti quei laboriosi rudimenti la signora Vo Than
Loc, la mia maestra, mi iniziò a Couperin, Bach, Hummel, Mozart,
Beethoven, Schumann, Debussy... Accomodante, il baule si prestava alle
mie sollecitazioni ed esaudiva di buon grado i miei desideri. Eravamo a un
passo dal tributarci stima reciproca.
Verso i sedici anni chiesi di affrontare Chopin. Non avevo forse scelto di
studiare il piano per penetrare il suo enigma? La maestra scelse un valzer,
un preludio e un notturno, e io cominciai a fremere all’idea di ottenere
l’investitura suprema.
Purtroppo, per quanto sviluppassi la mia abilità, dominassi le pagine
ardue, memorizzassi i pezzi e rispettassi i tempi, non ritrovai più il brivido
della prima volta, quell’altrove voluttuoso tessuto dalla seta delle note,
dalle carezze degli accordi, dal suono cristallino della melodia. Sebbene il
pianoforte ubbidisse all’impulso delle mie dita, non rispondeva né ai miei
sogni né ai miei ricordi. Il miracolo non si produceva. Lo strumento, che
sotto le mani di zia Aimée era soave, limpido, fragile e commovente, sotto
le mie risuonava virile e schietto. Era colpa mia? Sua? Della maestra? C’era
qualcosa che non coglievo. Chopin mi sfuggiva.
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