L’ultimo parallelo dell’anima – Pajtim Statovci

SINTESI DEL LIBRO:
Mio padre, uomo stimato dalla gente del villaggio, mi assicurò che
l’amore per quell’uomo, che aveva un bel sorriso e la cui barba
tagliata si scorgeva appena in controluce, l’uomo con cui stavo per
sposarmi a diciassette anni, il quale dalla strada principale avanzava
verso la sterrata che conduceva a un gruppetto di tre case modeste,
l’amore per quell’uomo sarebbe arrivato dopo, se adesso non c’era.
E io, la maggiore di sette figli, diedi retta a mio padre.
Perché mio padre era come uno di quelli che si vedono al cinema.
Con il suo bel viso affusolato dai tratti occidentali, la voce autorevole
e la solida struttura di un soldato, benvoluto e onorato – un kosovaro
della migliore specie. Un uomo di fiducia, da tutti rispettato, burrë me
respekt, la faccia sempre pulita, la canottiera lavata di fresco, la
barba mai lunga, e i piedi che non gli puzzavano mai, come invece
accadeva agli uomini che non si curavano del proprio onore o che
l’avevano perduto.
Aveva buone maniere, e un bell’aspetto. Una delle sue tante
piacevoli abitudini era dire sempre: «Va tutto bene». Lo diceva
anche quando si sapeva che tutto andava male, quando era chiaro
ed evidente che stava arrivando un lungo inverno e le verdure in
conserva non sarebbero bastate fino ad aprile. Aveva anche
l’abitudine di accarezzarmi i capelli, di sistemare le ciocche fuori
posto, di massaggiarmi il cuoio capelluto con le sue dita lunghe e
robuste. Lo faceva spesso, dato che i lavori domestici avevano
cominciato a procurarmi le stesse emicranie che aveva mia madre.
Mio padre, più che con la lingua, si esprimeva con i tratti del viso,
che erano espressivi, meravigliosi. Non ci si stancava mai di
guardarlo, quel viso in cui perdersi, e che capitava di restare a
fissare continuamente. Per quello, lo si perdonava sempre. Apriva
bocca solo quando aveva deciso di che cosa parlare. Diceva, per
esempio, che i poveri fanno i sogni più belli e fantasiosi. Non valeva
la pena di sprecare tempo con i sogni, se non erano troppo lontani
dalla realtà , perché allora si sarebbero probabilmente avverati, per
poi rendersi conto che non erano nella realtà come uno se li era
immaginati. E tutto questo – la delusione, il rancore, l’amarezza,
l’avidità – rappresentava un destino ben più triste di un sogno che
non si avvera. «L’essere umano dovrebbe sempre ambire a quello
che non potrà mai avere», diceva.
Aggiungeva che da giovane avrebbe voluto fare il musicista ed
esibirsi su palcoscenici importanti, o specializzarsi diventando un
apprezzato chirurgo cerebrale, dato che le sue mani lunghe e
regolari erano come fatte per un lavoro di precisione. Allora me le
allungava davanti e mi strizzava l’occhio. Sì, le sue mani erano come
scolpite, ferme e risolute.
Sposatosi a diciotto anni, e avuto il primo figlio a diciannove,
invece di sognare cominciò a nutrire speranze. Si augurava piccole
cose per la sua vita, vitelli grassi, cavalli robusti e galline che davano
uova regolarmente, estati più piovose, e il mare, poiché questa era
l’unica cosa che un uomo, nel corso della sua vita, doveva vedere.
L’unica cosa che, in effetti, lo disturbava, era che il Kosovo fosse
ancora quella piccola regione dei Balcani priva di uno sbocco sul
mare.
Con il tempo imparò quel che anche gli altri avevano appreso: da
villaggi del genere non ci si sposta in città seguendo i sogni,
nemmeno se ci si butta a capofitto nel lavoro manuale o intellettuale.
Queste cose succedono solo al cinema.
Mi destavo di buon mattino, alle cinque, per prendermi cura degli
animali della nostra tenuta. Quindi aiutavo i miei nel lavoro dei
campi. La campagna era enorme, vi coltivavamo praticamente tutto:
insalata, cavoli, angurie, peperoni, cipolle, porri, pomodori, cetrioli,
patate e fagioli. La proprietà era così grande, e richiedeva talmente
tanto lavoro che non c’era da meravigliarsi che a mia madre fosse
venuta la fregola di fare sette figli in dodici anni. Sbrigate le
faccende, correvo a scuola, e prima delle due e mezzo ero già a
casa, puntualmente. Ogni giorno era copia conforme del precedente.
Mia madre era una tipica moglie e madre kosovara. Una donna
attiva, tenera con il marito e poco permissiva con i figli. Tipici
kosovari erano i miei fratelli e le mie sorelle, con le testoline piene di
sogni. Mia sorella Hana era di un anno più piccola, delicata e
sensibile, sempre con l’aria di custodire un segreto inaccessibile agli
altri. E Fatime, un anno e mezzo più piccola, era proprio l’opposto.
Trascorrevo le mie serate fantasticando. Me ne stavo seduta su
un grosso masso sui fianchi del monte e fantasticavo, stavo
appoggiata al tronco di una quercia nello spiazzo dietro casa e
riflettevo, ascoltavo la radio e sognavo. Sentendo le mie canzoni
preferite pensavo che sarei potuta diventare una cantante, vallo a
sapere. O un’attrice, mi dicevo, avrei potuto imparare a recitare, e mi
avrebbero mostrata in televisione, avrebbero parlato di me alla radio
e la mia vita sarebbe stata così interessante che se ne sarebbe
occupata la stampa, il mio vestito rosso avrebbe riempito i sogni di
tutti, le mie gambe sarebbero state lunghe e sottili e lisce come
quelle dei bambini. Tutto sarebbe stato raggiungibile, niente
impossibile, se solo avessi scelto la strada giusta, e fantasticavo
tanto fino a piangere per quel che immaginavo.
Ogni domenica sera ci radunavamo intorno al televisore per
seguire programmi musicali sul canale Radio Televizioni i Prishtinës.
Nella maggior parte dei programmi c’erano uomini che cantavano
seduti su grandi cuscini a gambe incrociate, e ciascuno indossava il
costume nazionale: brache, tëlinat, ornate di strisce nere, un gilè
carico di decorazioni, xhamadani, una sciarpa rossa intorno alla vita,
shokë, e sulla testa uno zuccotto di feltro bianco, il plis. Cantavano
d’amore, di eroi in guerra e di onore, accompagnandosi con la
çiftelia.
Guardavamo anche dei film, in genere storie di partigiani della
Seconda guerra mondiale. Uno di quei film era ambientato a
Sutjeska, durante i combattimenti in Bosnia, allorché i nazisti erano
riusciti ad accerchiare i partigiani comandati da Tito in quelle vallate.
Stavamo seduti in fila davanti al televisore piangendo
accoratamente, testimoni di quante angosce e quante ambizioni
dominavano l’uomo, e come ci sentimmo coinvolti, quando il senso
dell’onore dei partigiani diventò voglia di combattere e poi rabbia.
Ma aspettavo più di ogni cosa che Zdravko Čolić, forse l’uomo più
bello dell’universo, cominciasse a cantare, o mostrassero dei filmati
con sue canzoni. Sapevo a memoria i pezzi dell’album Ako priđeš
bliže, per quanto, dei testi, non capissi praticamente niente. Ma dal
sentimento che metteva nel cantare Nevjerna žena, riuscivo a capire
che si trattava di una donna che gli aveva spezzato il cuore. Produži
dalje invece era un brano così veloce e la voce del cantante così
decisa che doveva trattarsi di roba molto più superficiale e leggera
dell’amore. L’unico sentimento che sappia spezzare la voce in quel
modo.
Quando finalmente Zdravko Čolić cominciava a cantare, stavamo
tutti in silenzio mugolando a bocca chiusa il motivo. Provavo invidia
per le ballerine sul palco, che avrebbero potuto rivolgergli la parola
dopo lo spettacolo. Per i fotografi, che una volta tornati a casa
potevano raccontare di averlo visto dal vivo. Per il presentatore, cui
Zdravko aveva cinto le spalle con un braccio.
Poi un giorno qualunque, quando avevo più o meno quindici anni,
capii d’un tratto che abitavo in piena campagna, che a scuola avevo
risultati mediocri, che non ero nemmeno una cantante passabile, pur
volendo diventare la migliore del mondo. Mi resi conto che non ero in
grado di parlare in maniera convincente, né di scrivere abbastanza
chiaramente. Che non ero brava a disegnare né a far di conto,
poiché mi risultava difficile concentrarmi a lungo su un compito. Non
riuscivo a correre più di tanto, e non sapevo tagliare i capelli. Ero
soltanto una ragazza carina, e brava nelle faccende di casa, almeno
così mi dicevano, ma se provavo a fare un elenco delle cose in cui
risultavo capace, mi veniva da tremare: nessun titolo da esibire,
quanto di più banale.
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