L’ultimo inganno di Hitler – Matteo Rampin

SINTESI DEL LIBRO:
La radiotrasmittente del soldato scelto Ivan ÄŒurakov smise di
funzionare di colpo.
Čurakov era un bielorusso biondo e muscoloso di ventitré anni,
quattro dei quali passati al fronte. Guardò l’orologio da polso che era
stato di suo padre: segnava le tre in punto. Brutta faccenda, le tre: le
vecchie delle campagne avrebbero detto che era l’ora della morte di
Cristo. Un presagio infausto. Si guardò attorno cercando qualcosa
che lo rassicurasse, ma c’erano solo rovine. Cercò di imporsi di
essere razionale: Non impressionarti, pensò, è solo una coincidenza.
Gli otto uomini che erano con lui, inquadrati nel Settantanovesimo
Fucilieri, un’unità dello Smerš, il controspionaggio militare sovietico,
erano riparati dietro i cumuli di macerie che ingombravano la
Wilhelmstraße. La squadra era penetrata in profondità nella capitale
tedesca più di ogni altro reparto sovietico, e in quel momento era
l’avamposto delle truppe che da qualche ora stavano combattendo
strada per strada nel cuore di Berlino.
Fëdor, l’infermiere, arrivò di corsa e si acquattò al suo fianco. Ivan
gli mostrò la radio. «È andata.»
L’altro scrollò le spalle con aria indifferente. Ivan pensava che
l’infermiere avesse sempre l’aria indifferente. Gli spiegò meglio il suo
pensiero: «Siamo tagliati fuori». L’altro annuì senza scomporsi. Ivan
avrebbe voluto essere altrettanto serafico, ma c’era poco da stare
tranquilli: da quel momento in poi non avrebbero più potuto ricevere
ordini dal comandante del reparto, il tenente colonnello Klimenko, e
quindi toccava a loro prendere l’iniziativa. Più propriamente, dato
che Ivan era il più anziano, spettava a lui decidere sul da farsi. Brutta
faccenda, si disse. I comandanti erano ossessionati dalla conquista
della roccaforte nazista, e nei giorni precedenti avevano continuato a
insistere su due obiettivi: arrivare prima che gli unni distruggessero
tutte le prove della loro barbarie e prendere vivi quanti più alti
papaveri possibile.
Fece il punto della situazione. Nell’ultima ora avevano percorso
mezzo chilometro lungo l’Unter den Linden in direzione della Porta di
Brandeburgo; poco prima dell’hotel Adlon avevano svoltato a
sinistra, verso quel che restava della cancelleria del Reich. Era
escluso che lì dentro vi fosse ancora qualche pezzo grosso del
regime: Hitler, stando a informazioni giunte la notte precedente, era
riuscito a fuggire dalla capitale a bordo di un biplano, ma le stesse
fonti assicuravano che Goebbels, ministro della Propaganda e
commissario per la Guerra Totale, ora a capo della difesa suprema
di Berlino, era ancora seduto al suo posto in uno dei bunker
sotterranei che secondo le informazioni in loro possesso si
trovavano sotto la cancelleria. Mettere le mani su Goebbels sarebbe
stato un bel colpo; forse ci sarebbe scappata la promozione a
sergente.
Un’ondata di angoscia lo colse alla sprovvista. Avrebbe dato dieci
anni di vita per poter ritornare da sua madre con i galloni sulla divisa.
Anche il suo fratellino, Miša, ne sarebbe stato fiero: lei avrebbe
ringraziato il Cielo, il piccolo sarebbe uscito indossando la sua divisa
e si sarebbe pavoneggiato con i ragazzini dei dintorni, e di sera
avrebbero fatto una festa attorno al camino, nella grande stanza al
piano terra. Ma erano morti entrambi, sotto i bombardamenti.
Si maledisse per non essere riuscito a evitare quel pensiero: negli
ultimi mesi, ogni volta che si era trovato sotto pressione, gli erano
affiorati alla mente i loro volti, le loro voci. Un groppo di lacrime salì
agli occhi. Non adesso, non adesso. Si sforzò di pensare ad altro.
Estrasse dal colletto la medaglia di San Nicola. Con l’arrivo della
guerra, Stalin aveva revocato l’ateismo di Stato, così sua madre
aveva potuto farla benedire da un anziano pope, e la sera in cui lui
era partito gliela aveva agganciata alla collanina. Ivan baciò
l’immagine sacra, poi si volse verso i commilitoni e li incitò: «Avanti,
compagni! Prendiamo la cancelleria!».
I
soldati si mossero simultaneamente. Era una squadra
eccezionale, compatta ed efficiente, composta da veterani affiatati.
Negli ultimi diciotto mesi nessuno di loro era morto in battaglia, e
questo, giurò Ivan, non sarebbe successo mentre lui era al
comando, tanto più che ora si trattava solo di avanzare in una cittÃ
difesa da disperati, vecchi e ragazzini.
Lo scenario che avevano trovato entrando a Berlino era stato
orrendo. Quartiere dopo quartiere, non c’era un solo edificio intero.
Tra i roghi che mulinavano in mezzo ai cumuli di rovine si
intravedevano centinaia di cadaveri. Orde di ratti si contendevano
brandelli di carne umana. Dai piloni della luce pendevano decine di
uomini e donne impiccati, con cartelli cuciti sul petto che dicevano a
caratteri gotici: NON HO COLLABORATO ALLA DIFESA SUPREMA DELLA CITTÀ. I
sopravvissuti, con occhi sbarrati e smorfie grottesche, si
trascinavano come in un incubo, incuranti dei pericoli. A un tratto
l’infermiere gli aveva indicato, con l’aria più naturale del mondo, una
leonessa scheletrica che spiccava il balzo dalla sommità di un
palazzo in rovina. Doveva essere fuggita dallo zoo. Alcuni della
squadra avevano puntato i fucili contro la belva, che però era
sgattaiolata tra le macerie. Se la caverà meglio di noi, aveva pensato
Ivan.
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