L’ultima vita – Claire Messud

SINTESI DEL LIBRO:
Ora sono americana, ma non è sempre stato così.
Sono qui da molto tempo – alla Columbia da sei anni, ma prima
ancora da quella che sembra un’eternità – e ho costruito un buon
simulacro di vita reale. A dire il vero, però, fino a ora ho vissuto
perlopiù al chiuso. Queste pareti nell’Upper West Side di New York
City sono il mio rifugio: un ammasso male illuminato di libri e oggetti,
un vago odore di casa. Ho aspettato, anche se non potevo, finché lui
non è comparso, dando forma terrena a quello che attendevo.
«Struggendoci, siamo già là ; abbiamo già lanciato la nostra
speranza su quella costa, come un’ancora. Canto di un altro luogo,
non di qui: perché canto con il cuore, non con la carne».
Non sono americana di nascita. Lo sono per scelta. Ma si tratta di
una maschera. Chi, nelle strade affollate di Manhattan, non ha
provato la stessa sensazione? Vale per me come per la commessa
coreana o l’uomo d’affari bengalese o lo studente nigeriano, per
l’infermiera dell’Iowa e la segretaria del Montana: l’americanitÃ
stende un velo, dona un guscio alla nostra vita interiore.
Il luogo da dove siamo venuti non offriva più spazio, o parole, o
aria; solo qui è possibile respirare. Il senso di colpa non sparisce: io
vivo – come potrei altrimenti? – con il peso del mio Peccato
Originale. Ma in America, almeno, dove il futuro è tutto quello che ci
lega, posso sembrare una persona nuova, una dei tanti. E per molto
tempo questo mi è bastato.
Ora mi ritrovo a voler tradurre il mio mondo interiore, a cominciare
da quella che un tempo è stata casa mia, sulla costa della Francia
del sud; con le fragranze e gli echi del Bellevue Hotel di mio nonno,
appollaiato sull’ampio Mediterraneo, cangiante tavolozza di verdi, blu
e grigi; e, come punto di partenza, l’alta stagione del 1989.
2.
Tutto ebbe inizio, direi, una sera dell’estate dei miei quindici anni,
quando mio nonno mi sparò. È così che ogni storia viene creata,
impostata, determinando un inizio: che però avrebbe potuto anche
essere il giorno della nascita di mio fratello, o della mia. E non è
nemmeno esatto dire che mio nonno sparò a me: per fortuna non mi
trovavo sulla linea di tiro; lui non sapeva che fossi lì. Fu però un
evento, il primo che ricordo, e dopo nulla fu come prima.
Quelle sere d’estate erano tutte uguali. Come diceva sempre
Marie-José, dovevamo far passare il tempo. Perché il tempo, di
propria iniziativa, non lo faceva, o non voleva: i giorni indugiavano
come frutti troppo maturi, morbidi e fragranti, fino a sciogliersi nel
crepuscolo. Dopo cena ci radunavamo nella piscina dell’hotel, in
cima alla scogliera, a guardare il cielo diventare blu Prussia e poi blu
notte, e la luna sorgere sul Mediterraneo, che si stendeva davanti a
noi con i suoi sussurri increspati. Ogni sera, la sagoma illuminata del
traghetto arava un solco attraverso l’acqua e svaniva all’orizzonte,
unico segno di un altro giorno trascorso.
Ancora quasi bambini, snobbavamo i giochi come acchiapparella
o guardie e ladri con cui si divertivano i più piccoli, che inseguendosi
si spingevano dalle panchine tonde accanto al parcheggio fino agli
angoli boscosi più remoti della proprietà . Noi invece poltrivamo,
fumavamo, parlavamo, ed eravamo così annoiati da aver reso la
noia una virtù. E flirtavamo: anche se ci conoscevamo quasi tutti da
anni, e passavamo ogni estate a nuotare e a giocare insieme, tanto
da conoscere la pelle e la risata e i sogni di ognuno bene come i
propri, flirtavamo. Era un buon passatempo.
Non riesco a ricordare chi ebbe l’idea di andare a fare il bagno di
notte. Trascorrevamo le giornate in acqua, quella torbida e salata
della baia, smossa dalle barche di passaggio, o quella indaco
elettrico della piscina, dalla superficie velata di iridescenze oleose.
Vivevamo in costume da bagno, triangolini colorati, e ci
impegnavamo (quasi fosse un lavoro) a ottenere un’abbronzatura
uniforme, intensa, che durasse anche nei mesi invernali. Andavamo
dalla spiaggia alla piscina alla spiaggia, su e giù per sentieri tortuosi,
tra gli aloe dove anni prima avevamo inciso le nostre iniziali, simili a
cicatrici in quella carne gommosa irta di spine. Non so perché
sentissimo il bisogno di nuotare in continuazione: forse perché i
nostri giochi acquatici erano gli stessi da sempre, un ambito dove
l’autoconsapevolezza non si era ancora infiltrata. Facevamo la lotta
a bordo piscina, cercavamo di spingerci in acqua a vicenda,
saltavamo dalla balaustra sporgente (anche se ci era stato proibito,
perché un cliente provandoci si era spaccato il cranio), sfoggiavamo
i
nostri eleganti tuffi dal trampolino e ci rincorrevamo per tutta la
lunghezza della vasca; chi vinceva spingeva gli altri sott’acqua tra
mille sputacchi.
I nostri giochi risuonavano tra gli alberi. Più forte urlavamo e più ci
sembrava di divertirci. Di giorno, i clienti adulti poltrivano stizziti
vicino all’acqua, maledicendo i nostri tuffi e la pioggerella di gocce
clorate che ne derivava; oppure, stoici e imbronciati, ci passavano in
mezzo nuotando a rana in modo misurato, e la loro scia veniva
subito inghiottita dalle nostre braccia e dalle nostre gambe mulinanti.
Di notte, però, la piscina illuminata dal basso tremolava vuota, senza
gli adulti che si aggiravano nel lontano bar dell’hotel o si attardavano
a chiacchierare durante cene infinite, le voci che si alzavano e si
abbassavano nell’aria piena di cicale. La cosa più vicina a un
nuotatore erano i pipistrelli che piombavano in picchiata a pelo
d’acqua in cerca di insetti, attratti dalla luce.
Così, intorno alle dieci di una sera di luglio, o forse più tardi,
Thierry – il figlio del contabile, un ragazzo che sembrava non
crescere mai e la cui voce si rifiutava di cambiare, e che
compensava la taglia con goffa arroganza e scherzi fastidiosi
propose di scacciare i pipistrelli e rivendicare quelle scintillanti
acque. Familiare alla luce del sole, al buio la piscina era
un’avventura, alterava tutte le ombre che la circondavano. Non
avevamo asciugamani, né costumi sotto i vestiti, così ci tuffammo
nudi, le curve e le fessure dei corpi al riparo della notte.
Eravamo otto o nove, ragazzini per cui l’hotel era una casa
sempre e altri per cui lo era ogni estate. I palpeggiamenti, gli
affogamenti e gli schizzi erano resi più eccitanti dalla nudità , e gli
strilli ancora più acuti. Non pensavamo agli adulti: perché avremmo
dovuto? Non pensavamo nemmeno all’orario. Il bagno di notte era
una scoperta deliziosa, anche se nell’emergere dall’acqua sentivamo
freddo alla testa e alle braccia e avevamo tutti la pelle d’oca. Dieci
minuti, forse venti. Non eravamo in acqua da tanto, ed è difficile
credere che facessimo un tale baccano, quando mio nonno apparve
sul balcone, una sagoma scura contro le luci del salotto, con il
platano simile a un mostro paleolitico ai suoi piedi.
Parlò con voce aspra e rabbiosa. C’era gente che cercava di
pensare, di dormire. Quello era un luogo di riposo, ed era un’ora
irragionevole... in breve, non avevamo diritto di nuotare. Noi
rimanemmo lì a ciondolare, pestando l’acqua in silenzio finché
qualcuno – Thierry, senza dubbio – cominciò a sibilarmi,
ridacchiando e senza farsi sentire da mio nonno, che il vecchio
coglione andava zittito.
«Digli che ci sei anche tu» sussurrò. «Diglielo e vedrai che la
pianta. Dai. Altrimenti andrà avanti tutta la notte. Dai!»
Gli altri – Marie-José e Thibaud e Cécile e il resto del gruppo – si
unirono a quell’esortazione: «Dai, Sagesse, dai». Le voci erano
come onde che mio nonno, un po’ sordo e ancora ululante, non
poteva sentire.
«Grand-père» gridai alla fine, con voce squillante come una
campana. «Siamo noi. Sono io. Scusaci. Non volevamo disturbarti».
«Fuori dall’acqua» gridò in risposta. «Uscite, vestitevi e andate a
casa. È notte fonda». Questo scatenò un coro di risatine: eravamo
convinti che la gente che andava a letto, si alzava la mattina presto e
andava al lavoro fosse una specie di scherzo. «Tuo padre sa che sei
qui?»
«Sì, grand-père, lo sa».
Mio nonno sbuffò, disgustato, uno sbuffo teatrale. «Andate a
casa, tutti quanti» disse, e si voltò, scomparendo nella luce,
riguadagnando i suoi tratti e la grande, ingrigita volta della fronte.
Ci arrampicammo fuori dalla piscina in una piccola folla
sgocciolante, parlottando.
«Ragazzi, tuo nonno» disse Thierry, saltando su e giù con le mani
incrociate sui genitali scuri, «è veramente un tipo».
«Non è colpa di Sagesse» disse Marie-José, mettendomi sulle
spalle un braccio umido. «Però sì, è un rompiscatole».
«Secondo mio padre è un bastardo» disse una ragazzina magra
di nome Francine, battendo i denti. Suo padre era il capo giardiniere.
«Lo dice anche mio padre» feci io. Risero tutti, e proprio allora un
pipistrello si fiondò in picchiata su di noi rischiando di colpirci in
testa. Gridammo all’unisono, ridacchiandone subito dopo.
«Occhio» disse Thibaud, uno degli ospiti estivi, un ragazzo figlio
di nuovi ricchi parigini su cui avevo messo gli occhi. «Altrimenti torna
fuori». Ringhiò. «Il rottweiler».
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