Il karma del gorilla- Sandrone Dazieri

SINTESI DEL LIBRO:
La telefonata che diede inizio alla più disastrosa serie di
avvenimenti che avesse mai coinvolto la mia persona arrivò in
contemporanea con il tifone Katrina su New Orleans. Io e Piero
stavamo seguendo la diretta sulla Cnn, unici due abitanti svegli del
complesso di loft a buon mercato che ci faceva da casa.
La notte prima, tutti i miei vicini avevano festeggiato la fine
dell'estate con un rave nel cortile, andando avanti fino alle sei del
mattino con la musica a palla e qualcosa come seicento ragazzotti
che ballavano e vomitavano in tutti gli angoli.
Capita, quando i tuoi vicini sono tutti giovani di tendenza, che
campano con lavori creativi e improbabili.
Anche Piero era un giovane di tendenza, visto che gestiva un
atelier di moda, ma invece di andare a dormire era venuto a bussare
alla mia porta a mezzogiorno, con l'ultima bottiglia di vodka ancora
intatta, e io l'avevo accolto facendogli posto sul divano.
Quando suonò il telefono, le immagini in televisione erano quelle
di un nero che trasportava del cibo su una barca. Lo speaker stava
dicendo che aveva saccheggiato un supermercato, con il tono di chi
riterrebbe più logico morire di fame. Guardai il display del mio
cellulare e rabbrividii.
«È Padre Molinas» dissi prendendo la bottiglia.
«E non gli rispondi?» chiese Piero.
«Non so se me la sento. Ha sempre una rogna in serbo.»
Padre Molinas era il direttore di una rete di centri di accoglienza
sparsi per la penisola, oltre che il più grosso impiccione che avessi
conosciuto. Non l’avevo mai visto in tonaca, preferiva maglioni grigi
che gli davano l’aspetto di un camionista cattivo. Fumava il sigaro e
una volta lo avevo visto battere un facchino albanese in una gara di
sputi.
Il telefonino smise, poi riprese. Continuai a fissarlo.
«Mi sa che non ti molla» disse Piero.
«Mi sa anche a me.»
Alla fine risposi e mi toccò andare a infilarmi i calzoni e le scarpe
e saltare in macchina.
L’ennesima rogna che Padre Molinas mi aveva scodellato
riguardava una coppia di fratelli egiziani: Muhammad e Haifa. Erano
scappati dall’Egitto per sottrarsi a un arresto per attività sovversive e,
gira e rigira, lei era finita da parenti lontani in Germania e lui a
Varese, dove si arrangiava dando ripetizioni di inglese, scaricando
camion e insegnando il Corano in moschea.
Quando Muhammad aveva smesso di farsi vivo, Haifa era venuta
in Italia a cercarlo. Ci aveva impiegato un annetto per arrivare, tra
visti e menate, e qui aveva scoperto che all’indirizzo del fratello
viveva adesso una coppia di italiani poco gentili. Muhammad si era
dato senza pagare l’affitto più o meno nel periodo in cui aveva
smesso di rispondere alle lettere.
Haifa aveva pellegrinato tra ospedali e centri islamici senza
cavarne niente.
Mentre stava per finire i pochi soldi, aveva incontrato una vicina
di casa del fratello, un’algerina piuttosto spaventata e sfuggente, che
mossa a pietà le aveva rivelato quello che ormai Haifa sospettava.
Muhammad era stato rapito.
Un giorno, mentre usciva dal portone, tre occidentali gli si erano
avvicinati e l’avevano caricato su un furgone con la scritta
TRASLOCHI . Lui aveva cercato di scappare, uno dei tizi lo aveva
preso a pugni in pancia e aveva chiuso lo sportello. Visto che la
polizia non sembrava interessata al caso, Haifa era andata a
chiedere consiglio alla mensa dei poveri dove consumava i suoi
pasti.
E qui aveva trovato Padre Molinas, e Padre Molinas aveva
trovato me.
Quando arrivai al Centro Mani Aperte, Molinas era sulla soglia
che fumava il toscano.
«Ce ne hai messo.»
«Mi si è rotto il teletrasporto.»
Mi spinse dentro. «Va be’, adesso che sei qui datti da fare.»
Facemmo un conciliabolo a tre attorno al bigliardino del refettorio.
Haifa raccontò di nuovo la sua storia, alternando tedesco
sgrammaticato e arabo.
Padre Molinas mi prese in disparte. «Che ne pensi?»
«Secondo me dice la verità. Non mi sembra in grado di essersela
inventata. È una roba da sbirri, questa.»
«Se volevano occuparsene, mica chiamavo te.»
«C’ero arrivato. Va be’, sentiamo Mirko Bastoni.»
Mirko era il mio avvocato di fiducia, quarantacinque anni con una
faccia che ne dimostrava la metà, sguardo da ragazzino e lingua
biforcuta. Ci conoscevamo da quando ero un militante politico al
centro sociale Leoncavallo, il che significa da un sacco di tempo. Lo
dovetti pregare un po’, ma neanche tanto, considerando che doveva
lavorare gratis.
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