Il punto di vista di Dio – Antonio Paolacci

SINTESI DEL LIBRO:
Pochi minuti prima che ci scappasse il morto, il sudamericano si alzò
per andare a prendere l’eucaristia.
Sua moglie era rimasta seduta a cullare il loro piccolo, un pupo di
meno d’un anno che aveva frignato per l’intera funzione, suscitando
molti sospiri seccati. L’uomo era l’unico so o i cinquant’anni a
me ersi in fila per la comunione. Il resto dei presenti, all’incirca una
decina, era composto dal solo genere di italiani tipicamente
propenso a temere per la propria anima, ovvero quelli di età non
inferiore ai se anta.
Il professor Sergio Bruzzone, che di anni ne aveva se anto o,
seppure portati molto bene, passò davanti a tu i senza riguardi. Il
sudamericano gli lanciò un’occhiata, trovandolo impeccabile nei suoi
abiti ben stirati, i capelli bianchi ancora folti.
La professoressa Scaturchio, che stava più indietro, prese un
respiro pieno e ricominciò a farsi aria con un ventaglio sgargiante.
La do oressa Valentina Salati si mise in coda subito dietro il
sudamericano. Lei di anni ne aveva se antaqua ro, e a darle diri o
di farsi ancora chiamare do oressa era il fa o di essere stata un vero
medico generico, «non uno di quei burocrati smista-rice e di oggi»,
come li considerava lei, ma proprio un medico dei tempi andati, uno
di quelli che «nientemeno» curava la gente. E che fosse stata una
professionista dal cara ere caparbio, oltre che bellissima, lo si poteva
intuire dal corpo ancora forte, in evidente salute.
Il sole raggiunse le finestre più alte e accese di colore i mosaici. La
chiesa era uno di quegli scrigni piccoli e preziosi che nel centro
storico di Genova condividono lo spazio angusto con topi e
spazzatura. Il cuore dell’antica ci à portuale era del resto sopra u o
questo, un groviglio di vicoli spartito in territori opposti, eppure
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distanti tra loro appena pochi metri. Un passo in là ed ecco
impalcature e sporcizia, mentre qui, dopo un semplice gradino di
marmo antico, l’odore tenue di acqua di colonia e dopobarba si
univa a quello degli abiti freschi di bucato della piccola comunità di
quartiere, intenta a compiere il suo onesto rito religioso.
Era insomma una normale domenica ma ina genovese di inizio
estate. O almeno così sembrava.
Elegante e ingioiellata, alta e diri a come una bronzea statua di
regime, la do oressa Salati abbassò lo sguardo senza perdere la
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ierezza e fece un passo nella fila, gli occhi a irati dai vistosi tatuaggi
dedicati alla Vergine Maria che decoravano i polpacci nudi del
sudamericano.
Don Gabriele Mola fece un cenno con il capo a Sergio Bruzzone,
primo della fila, e gli porse la sua ostia. Subito dopo il prete si voltò,
tornò indietro sui suoi passi, posò sull’altare la pisside che aveva
contenuto l’ostia per Bruzzone e ne prese un’altra, in apparenza
identica; tornò alla fila che lo aspe ava e cominciò a distribuire le
altre ostie a ritmo serrato, più simile a un croupier con le carte da
gioco che a un sacerdote intento in mansioni sacre.
Quando venne il suo turno, la do oressa Salati disse il suo
«Amen» e raccolse l’ostia sulla lingua; fece il giro intorno ai banchi,
tornò a sedersi e giunse le mani davanti al viso, chiudendo gli occhi
in raccoglimento. Un a imo dopo, un gemito seguito da un fracasso
improvviso, che fece eco nella chiesa, la costrinse ad alzare la testa di
sca o.
Il rumore proveniva da due file avanti, vale a dire dal banco di
Sergio Bruzzone.
Tu i emisero un urlo non troppo tra enuto. Don Gabriele fermò
l’ostia a un centimetro dalla faccia della professoressa Scaturchio,
che nel fra empo si era girata per vedere cosa fosse successo. Il
bambino strillò, di nuovo. Il prete, che aveva visto Bruzzone
afflosciarsi lungo il banco, mosse gli occhi prima sul piccolo urlante,
poi con tranquillità a cercare la Salati: «Un medico» disse soltanto,
guardandola senza scomporsi. E rivolse un cenno del mento alla
Scaturchio che gli stava davanti: «Il corpo di Cristo».
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La donna lo guardò molto male, poi si voltò di nuovo.
La do oressa, intanto, si drizzava in piedi deglutendo i residui di
ostia non ancora sciolti tra lingua e palato. Per una frazione di
secondo tu i la videro immobilizzarsi perplessa, la fronte aggro ata,
le labbra stre e. Poi si mosse.
Dal momento che la professoressa Scaturchio non si decideva a
voltarsi verso di lui per prendere l’ostia, don Gabriele si schiarì la
voce. «Continuiamo la funzione, fratelli. Fa molto caldo, e la
do oressa si occuperà di lui. Sono sicuro che non sia niente di
grave» poi sventolò l’ostia davanti al viso della donna e ripeté, con
tono più insistente: «Il corpo di Cristo».
Nel fra empo, dal fondo della chiesa si mosse un altro uomo,
anche lui noto a molti dei presenti.
Era il maresciallo dei carabinieri in pensione Carlo Scialoja,
o ant’anni tondi, la corporatura di chi un tempo aveva raggiunto il
metro e novanta anche se poi, con l’età , si era come afflosciato so o il
suo stesso peso.
Scialoja era quasi del tu o sordo da un orecchio, ma rifiutava con
ostinazione granitica di applicare all’orecchio l’apparecchie o che
teneva sul comodino. Per questo, quando raggiunse Bruzzone, non
sentì il suo lamento soffocato. Lo sentì invece benissimo la do oressa
Salati, visibilmente agitata e china su di lui nello spazio stre o tra i
due banchi.
«Tina» sussurrò il maresciallo, per segnalarle di essere dietro di
lei, pronto ad aiutare.
«Oh, Carlo» fece lei dopo un breve silenzio, voltandosi appena.
«Aiutami.»
«Oddio, Sergio? È Sergio?» esclamò allora il maresciallo, appena
riuscì a vederne la faccia. «Non avevo sentito niente, ma ho visto che
correvi e...»
«Prendilo per le spalle» lo interruppe la do oressa. «Io gli tengo
le gambe. Portiamolo dove c’è più spazio.»
«Eh?»
«Prendilo per le spalle» scandì la Salati, mimando con le mani il
gesto e poi indicando il fondo della chiesa. Scialoja annuì e si mosse.
Sergio Bruzzone era riverso sull’inginocchiatoio, la bocca aperta,
le palpebre spalancate, gli occhi rovesciati all’indietro. Il maresciallo
fece scivolare i polsi so o le sue ascelle e lo tirò su, mentre la
do oressa lo sollevava dalle ginocchia. Lentamente e cercando di
non fare troppo rumore, lo portarono verso l’ingresso della piccola
chiesa.
Nel fra empo, don Gabriele era andato avanti imperterrito, pur
nell’inquietudine generale. Il pensiero che il caldo colpisse un uomo
di età avanzata concesse comunque a tu i qualche minuto di a esa
senza allarmi. Entro breve Bruzzone si sarebbe senz’altro ripreso,
pensavano.
«Gesù» soffiò la do oressa a bassa voce, mentre adagiava le
gambe di Bruzzone sul pavimento.
Il maresciallo Scialoja fece lo stesso con le spalle dell’uomo,
a ento a posargli piano la testa sul marmo duro. Poi si raddrizzò,
visibilmente impallidito: «Non si muove ancora, Tina» balbe ò. «Ma
respira?» chiese tenendo anche lui bassa la voce, per quanto a un
passo da una crisi di panico.
«Ce la fai a chiamare un’ambulanza?» gli chiese la Salati senza
rispondergli, giusto un a imo prima che Bruzzone si muovesse di
sca o.
«Oddio!» urlò Scialoja. Il coro si interruppe. E tu i si voltarono.
Bruzzone si contorse con un rantolo impressionante. La Salati si
lasciò quasi cadere in ginocchio per afferrargli la testa e girargliela
da un lato, mentre il corpo veniva scosso da violente convulsioni.
«Sergio! Dio! Sergio!» ripeteva intanto il maresciallo, agitando le
lunghe braccia come se dovesse afferrare qualcosa intorno a sé.
La do oressa infilò due dita nella bocca di Bruzzone, alla ricerca
della lingua. «Tienigli le spalle, Carlo. Tienilo fermo» disse a voce
alta per sovrastare il suono orrendo di gambe e braccia che urtavano
il pavimento.
Il
maresciallo non sembrava capire, ma presto non fu più
necessario. Di colpo Bruzzone si fermò e, di schianto, un silenzio
irreale invase la chiesa.
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