Il campo di concentrazione – Ottiero Ottieri

SINTESI DEL LIBRO:
Passate tre settimane di clinica (durante le quali è stato
inconcepibile scrivere).
Ricordarsi di dire che la sera stando «meglio» ho gli stessi
problemi di scelta che a casa. Raccontarli all’analista.
Le occasioni e l’amica.
La vergogna di...
La posta alla...
Una via l’altra. La ridda delle donne vagheggiate. Ritorno come
prima. Le «poesie» rinvengono di moda dopo la paura enorme, il
rivolgimento del cielo e della terra (nelle prime tre settimane) e la
«disperazione nera». Non vi è altro aggettivo alla disperazione che:
nera.
Come usavo, non mi muovo piuttosto che scegliere.
Il pericolo è che non ci siano novità (dall’esterno?).
Che tutto torni come prima.
Il rinnovamento. Gli occhi nuovi. Guarire.
Che subentri l’agitazione ansiosa.
Il non potere non volere perdere nulla.
After all that desperation the danger is to be the same as before
(questa clinica è molto internazionale).
Ritrovare ovunque un leader.
Il pericolo che la disperazione non rinnovi. È stata inutile?
Mettersi al carro di S.T., un ragazzo che sta nella dépendance.
Voler sapere dov’è. Andare continuamente in giardino a vedere
che succede. Essere tali e quali a prima.
Stare chiusi. Ma il pericolo della libertà.
L’obbligo della clinica fa in un certo senso passare l’angoscia.
«Trasformare le ossessioni in fantasie» (l’analista).
L’ossessione della dépendance. Che ci faranno?
Avere o no la chiave della porta d’ingresso (io non ce l’ho).
Infilare tutte le supposte perle.
Le azioni come i pensieri: caleidoscopio.
L’analista commenta: tornerà come prima ma sano.
La tentazione di agganciarsi a qualcuno, di fare la posta a
qualcuna.
Non stare mai tranquilli.
Che cosa fai stasera?
If they sleep it is better for me.
Stare ore e ore fermo in attesa, alla posta. Scoprire tutto.
Stare a letto o in giardino?
Immaginarsi la guarigione.
Ritornare alle poesie come dopo la clinica italiana.
Lasciare o non lasciare la clinica.
Lo sforzo di alzarsi dal letto per la «curiosità» ansiosa di vedere
che cosa fa S.T. Insomma vivere le alternative nell’ambito della
clinica, invece che come – fino adesso – fra clinica ed altra clinica.
L’analista: mettere tutto in ordine. – La sofferenza costringe sì a
farlo ma scompiglia tutto.
L’orrore del proprio fisico. L’ossessione della pancia. Camminare
per dimagrire.
Posso uscire con altri pazienti o devo essere accompagnato da
una infermiera?
La giornata vuota ma piena come un lungo viaggio del pensiero e
dell’emozione.
Starò mai più a tavolino?
Il vecchio timore di non vivere per scrivere, come prima della crisi.
La depressione e l’ansietà mi impediscono di produrre. Non sarò
mai più un grande.
Vado in giardino e ci trovo S.T. e gli faccio leggere le mie poesie,
di cui capisce il 20 per cento. Giornate faticosissime. Era meglio
quando stavo sul letto, fuori della realtà. Adesso sono nella realtà
ma è troppo accesa.
Aspetto la notte.
La mania di fare domande. Il mio rapporto con gli altri è soltanto
interrogativo. Qui in clinica esplode. Tallonare il leader (come un
gregario. L’analista sostiene che sono un gregario).
Cambiare leader.
Tradimento. D’un colpo, a cena, il leader è divenuto ora T.P.
Breve catarsi serale.
Debbo lasciare o no?
Autoplastico e alloplastico.
Ecco dove, secondo me, non è riuscita l’analisi freudiana. Mi ha
abbandonato alla soglia del problema.
Discretamente, ma paura del mattino.
Sogno di F.C. e della droga.
Se avessi trovato un lavoro interessante forse non sarei qui.
Il cinema, per esempio.
Analisi: chiarire bene che cosa vado a fare a casa. Essere il
«direttore di me stesso». O andare a parlare con S.T.?
Un certo orrore della casa. Che cosa farci senza bere...?
Il problema di...
Utilizzare la fretta come spinta e non come paralisi.
Il cinema e Roma. Rimanere lo stesso ma evolvendosi.
Andare via subito?
Non si parla di «rimovente» e di «rimosso».
La casa è un rimosso? Le due analisi.
«Le ossessioni vanno soddisfatte» (l’analista).
Non accontentarsi di non soffrire.
Ora ho questo pensiero della casa. Ma quanto durerà?
Non c’è da fidarsi. L’analista non si fida di me. Non mi dà la
chiave. Di colpo durante il the (delle 151/4) mi sento meglio. Che
cosa succede.
Sto discretamente dalle 15 e 3/4 a adesso (ore 19). Che cosa
succederà stasera? E domattina? Volevo andare al cinema ma
l’infermiere-capo non lascia libera la bella e poco sapida infermiera
K. Così il divieto taglia le gambe al dubbio. Ecco quello che voglio.
Che cosa accadrà quando non avrò divieti?
Di nuovo il dubbio ossessivo. Lo pavento come l’inferno più
basso.
Eravamo in giardino oggi pomeriggio, C., B.C., Monica, S.T. e K.
ed io, depressi, pazzi, una infermiera. Tutto era solitario e immobile.
Tempo nuvoloso e temporale imminente: si aspettava una catarsi
fisica e psichica. Afa. Mi sentivo meglio, benché coperto di fango
secco, e ne ero meravigliato. Si parlava come si poteva, in varie
lingue, di cose culturali. Non mi veniva il nome di... Marcuse. La
sofferenza fa perdere la memoria. L’angoscia depressiva fa smarrire
l’appetito e il ricordo. Estraniato pomeriggio. Tutto è strano qui, tra il
carcere e la villeggiatura. Debbo pensare a che cosa farò quando
andrò a casa. Vorrei che questo pensiero fosse fisso... ossessivo.
Forse è meglio un’idea ossessiva che il caleidoscopio di pensieri. A
questo sono arrivato. A rimpiangere le idee fisse delle crisi
precedenti. (Avevo per ogni crisi un’idea fissa.)
Una notte completamente insonne, ma felice. Il sabato della
disperazione con l’infermiera G., un angelo, che mi trascina nel
giardinetto. La disperazione nera contro il muro bianco del letto.
L’irreale. La perdita di memoria.
Non oso nemmeno chiedermelo. Quale sorte avranno le mie
poesie qui sul comodino? Potrò un giorno finire di correggerle o sono
già superate? Mi stupisce curiosamente tornare a scrivere: come un
bambino fa gli esercizi per il maestro.
L’analista è ora il mio maestro di vita. Ha detto che sta
insegnandomi a diventare maestro di me stesso, cosa che avevo
totalmente disimparata. L’analista vuole costruire in me una
personalità integra e libera. Io ho cercato la libertà nell’alcool e nel
fare tardi la sera. L’analista vuole che torni uno scrittore. Una parte di
me non lo vuole. Ho paura, ad essere integro. Anche adesso scrivo
con paura, sempre pensando di cessare da un momento all’altro. E
scrivo perché mi sono obbligato (sono poi stato obbligato) a
rimanere in clinica. Gramsci in carcere non parlava di sé, studiava e
faceva cultura. Io faccio e disfaccio solo me stesso – non più cultura– come rimasto solo al mondo. Paragono continuamente lo scrivere
al vivere. Il problema del vivere e dello scrivere ha pesato su tutta la
mia vita. Non l’ho mai risolto, o scrivendo troppo o vivendo «troppo»
(senza vivere).
Ora sta balzando dentro il mio cervello l’idea se decidere o no una
passeggiata con l’infermiera K. Ma forse non si può. Se non si può,
meglio. Credo che non domanderò. Sono le 19.30 del 27 giugno
1970 e scrivo sul mio letto (siamo in tre in una piccola stanza) della
clinica X. di O. dove si applica la psicoterapia individuale a nevrotici
e psicotici e tossicomani tutti insieme. Ora cesso di scrivere e mi
metto a pensare.
Qui penso soltanto, paralizzato dalla depressione, sdraiato sul
letto, fumando dalla mattina presto alla sera. Mentre io penso nella
saletta di fronte alla mia camera si parla.
«Wo-n-i Bub gsi bi, hainir, Biern am ussure Bollwark gwohnt,
grediubere voder Chilche. Undeninne het e Paschteteback sy
Ladegha. Aber er het nid nume Paschtete gmacht.»
«Was, war gfellig?» «E Labcheche, aber de eschone, tolle,
grosse!» «So oppis.» «Wie tuur da?» «Druu jufesiberg.»
Appena sveglio mi metto a pensare. «Prezis, das isch es siemel
do o derwart dryribysse. Wie tuur da?»
«Da chunt Ech uf fuuf.» «Hennsode. Weder abe – Es chemer’s
nut, was da druffe stut – Gmessans Barm. Da’sch fumm.»
Parlano nella saletta davanti a cui la mia porta è aperta. La sera
di solito, come i depressi, sto meglio. Da quanto tempo non vado dal
barbiere? Ho i capelli lunghissimi, ricci. Sono orribile. Per uscire
dovrei tagliarmeli prima. Ma per tagliarmeli devo uscire. Dove sarà il
barbiere? Non mi oriento. Quanti divertimenti perdo stando qui.
Ma prima di venire qui mi divertivo? Non mi dedicavo che al
«divertimento» ma che cosa facevo il giorno? Bevevo, e bevevo la
notte.
Mi
distruggevo
nell’ideologia
del
divertimento.
Mi
addormentavo di solito verso le quattro di mattina e cercavo di
dormire il più possibile durante il giorno per evitare l’angoscia del
risveglio e della realtà. Mi sono ingrassato e invecchiato, fisicamente
mi odio.
Che cosa è meglio? La depressione o il carcere? Il carcere.
Scrivo provvisoriamente. Smetto da un momento all’altro per
tornare a pensare. «Breibe Keine muzza ich stonde ich habe
genommen. Schwider im dart abert die Massen Generale gerade
Konnjo vir tecnik medicaments mittagrimmer.» Stasera sto meglio,
mi ausculto attimo per attimo. Dovrei descrivere le prime tre
settimane, peggiori dell’inferno, e i vari ammalati con cui sto insieme.
E la paura. Fumo e bevo acqua o latte o the di continuo. Ho bisogno
del bicchiere e di compiere il gesto, il riflesso condizionato del bere.
Come potrò stare domattina? Domenica. Un’altra giornata
totalmente vuota. Starò male per forza. Sto eseguendo un lavoro di
dolore. Il mestiere, qui dentro, è la sofferenza. Sono un impiegato
dell’infelicità.
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