Gli omicidi di Monet – Josh Lanyon

SINTESI DEL LIBRO:
«Emerson Harley capì che la minaccia non era rivolta solo ai
più grandi traguardi culturali e artistici di tutti i tempi. Le forze
fasciste durante la Seconda guerra mondiale minacciavano la civiltà
stessa.»
I discorsi erano in fase avanzata quando il suo cellulare
cominciò a vibrare.
Essendo arrivato tardi, Jason se ne stava in piedi in fondo al
consistente pubblico che riempiva l’ampio salone del California
History Museum di Beverly Hills, ma anche in quel modo riusciva a
percepire la disapprovazione che giungeva a ondate dalla parte
anteriore del lussuoso ambiente, al momento occupata dalla famiglia
West. La sua famiglia. Come diavolo facessero anche solo a sapere
che lui era presente e che, inoltre, stava disattendendo le aspettative
della famille, era un mistero, ma dopo trentatré anni Jason ci aveva
fatto l’abitudine.
Tirò fuori furtivamente il cellulare per dare una rapida occhiata
al display e provò una fitta di piacere. Sam.
Ovvero Sam Kennedy, capo dell’Unità di Analisi
Comportamentale, l’uomo con cui era, be’, coinvolto
sentimentalmente. Quella era forse la definizione migliore.
Tuttavia, quasi rifiutò la chiamata. Non che non avesse voglia
di parlare con Sam – sapeva il Cielo se non era un avvenimento
raro, di quei tempi – ma la cerimonia di dedicazione di un’ala
museale al proprio nonno aveva in qualche modo la precedenza. O
avrebbe dovuto averla.
Una sorta di istinto lo spinse a cliccare su Accetta. Facendo un
sorriso di scuse si aprì un varco nella folla di completi formali e abiti
da sera, spostandosi nella sala dedicata alle Americhe antiche, con
la sua esposizione di arte e ceramiche precolombiane.
«Ehi.» Jason tenne bassa la voce, ma quell’“ehi” sussurrato
sembrò propagarsi per l’intera fila di visi olmechi in pietra. Sarebbe
stato difficile, se non impossibile, mettere insieme una collezione del
genere ai tempi odierni. Tralasciando che molte opere di enorme
rilevanza culturale stavano sparendo in mani private a un ritmo
mozzafiato, c’era anche il fatto che spesso, e magari giustamente,
gli attivisti nativi americani bloccavano gli scavi di resti umani e
manufatti, per loro una profanazione di luoghi sacri.
«Ehi,» rispose Sam seccamente. «Stai per essere chiamato su
una scena del crimine. Omicidio.»
«Okay.» La cosa era un po’ strana. Come faceva Kennedy, di
stanza a Quantico, a saperlo? E perché prendersi la briga di
informare Jason?
«Non posso parlare.» Sam continuava a parlare in modo
brusco e a bassa voce, come se timoroso di essere sentito da
qualcuno. Quello era già di per sé interessante. Non che a Sam
fosse mai fregato un tubo di ciò che gli altri potessero pensare.
«Volevo avvisarti in anticipo. Sono anch’io sulla scena.»
Il cuore di Jason fece un altro dei suoi sconcertanti balzi.
Finalmente. Di nuovo insieme nello stesso angolo della galassia
delle forze anti-crimine. Era passato… quanto? Il caso in
Massachusetts era avvenuto in giugno e adesso era febbraio. Otto
mesi. Quasi un anno. E gli sembrava proprio un anno intero.
«Ricevuto.» Jason fu ugualmente asciutto. Aveva afferrato. In
quei giorni Sam si trovava su un altro livello. Quando si erano
conosciuti, Sam era nel fango, la sua carriera in bilico. Adesso la sua
reputazione era tornata quella di sempre, la sua posizione
pressoché inattaccabile. Jason, all’opposto, rimaneva un agente
operativo di basso livello della squadra Crimini Artistici. E anche se il
Bureau non vietava ufficialmente di fraternizzare, la discrezione
faceva parte dei requisiti del lavoro. Insieme a Fedeltà, coraggio,
integrità.
Il suo telefono lo avvertì di un’altra chiamata in arrivo.
«Ci vediamo là.» Sam riagganciò.
Jason accettò automaticamente la seconda telefonata.
«West.»
Una voce fredda e raffinata disse: «Agente West, qui il
Vicedirettore Responsabile Ritchie.»
Dopo un momento di stupore, lui replicò: «Signora.» Come se
una telefonata dal Vicedirettore Responsabile fosse cosa di tutti i
giorni.
«Mi dispiace disturbarla in quella che so essere una serata
speciale per lei e la sua famiglia, ma ci troviamo in una situazione
che potrebbe beneficiare della sua specifica esperienza.»
Quel genere di chiamata – non che ne ricevesse molte – di
solito arrivava dall’agente speciale George Potts, addetto alla sua
supervisione presso la grande e potente sede di Los Angeles.
«Abbiamo un cittadino straniero morto sul… per l’esattezza,
sotto il molo di Santa Monica. A quanto pare si tratta di un esperto
d’arte della Nacht Galerie di Berlino. Gil Hickok della LAPD richiede
il nostro supporto. Inoltre…» Il tono del vicedirettore cambiò in modo
impercettibile. «Il capo dell’Unità Analisi Comportamentale Sam
Kennedy sembra pensare che la sua partecipazione all’indagine
potrebbe esserci di aiuto.»
Traduzione: la Ritchie era stupefatta tanto quanto Jason.
Perché mai l’Unità Analisi Comportamentale riteneva di dover
mettere il naso nelle indagini sull’omicidio di un cittadino tedesco,
addirittura richiedendo risorse alla squadra Crimini Artistici della
sede locale?
Senonché… Il detective Gil Hickok non solo era a capo della
sezione Furti d’arte, ma praticamente rappresentava il principale
agente esperto d’arte della California del Sud, da circa vent’anni. Le
forze dell’ordine più limitate, come la polizia di Santa Monica, non
avevano esperti tra i propri dipendenti, e si appoggiavano alle risorse
dei colleghi di Los Angeles. La squadra di Furti d’arte della LAPD,
composta da ben due persone, era la sola unità del genere a livello
municipale negli Stati Uniti. Se Gil richiedeva l’assistenza di Jason,
ci doveva essere un motivo valido. Oltre al fatto, cioè, che l’uccisione
dell’esperto d’arte di una delle gallerie più importanti della Germania
era per sua natura materia di interesse per Jason.
Adesso che la sua attenzione era stata completamente
catturata, Jason non vedeva l’ora di andare sul luogo del delitto. E
non c’entrava niente il fatto che Sam si sarebbe trovato lì.
Finì di ascoltare la Ritchie, che in realtà aveva poco altro da
aggiungere alle informazioni iniziali, e disse: «Arrivo.»
Riattaccando, attraversò la porta ad arco e scandagliò con lo
sguardo la folla. Tutti gli occhi erano fissi sull’uomo basso e
corpulento che stava dietro al leggio posizionato nella parte anteriore
del salone di fresca costruzione, cercando di ovviare alle scariche
perfora-timpani che attraverso il microfono punteggiavano il suo
discorso.
«Nel marzo 1945 Harley fu nominato, nell’ambito del
programma Monumenti, Belle arti e Archivi, capo della sezione
guidata dal colonnello Geoffrey Webb, “Monuments Man” britannico.
Di stanza al quartier generale delle Forze di Spedizione alleate a
Versailles, e successivamente a Francoforte, Harley e Webb
coordinarono le operazioni dei Monuments Men sul campo, oltre a
gestire i rapporti ufficiali ricevuti e a pianificare le future operazioni
del programma. Harley viaggiò in lungo e in largo, e con grandi rischi
per la propria persona, attraverso la zona di occupazione americana,
alla ricerca di opere d’arte e beni culturali depredati.»
Correzione: non tutti gli occhi erano puntati sul curatore del
museo, Edward Howie. Quelli della sorella di Jason, Sophie,
scrutavano lui.
Sophie, alta, capelli scuri, elegante in un abito sbracciato color
giada di Vera Wang, era sposata con il membro del Congresso Clark
Vincent, anch’egli presente. Clark cercava di esserci a tutti gli eventi
coperti dalla stampa. Sophie era la figlia di mezzo, ma se soffriva
della tipica sindrome, questa si era manifestata attraverso
un’ambizione inflessibile e un atteggiamento autoritario nei confronti
di chiunque si trovasse nella sua sfera d’azione. Aveva diciassette
anni più di Jason e lo considerava il suo progetto personale.
Jason sollevò il telefono e scosse la testa, la sua espressione il
tipico mix di scuse e determinazione perfezionato dagli agenti delle
forze dell’ordine per evenienze del genere. E inevitabilmente ce
n’erano sempre molte. Un’altra caratteristica di quel lavoro.
Sophie, il cui secondo ruolo era quello di mastino della
famiglia, espresse il suo disappunto attraverso le sopracciglia.
Spendeva un sacco di soldi per farsele fare, e le tornavano sempre
utili. Al momento ricordavano quelle di Harley Quinn.
Jason cercò di infondere un po’ di imbarazzo nelle proprie
scuse silenziose. In realtà era sinceramente dispiaciuto di perdersi la
consacrazione, ma se c’era qualcuno che poteva capire, quello era
proprio nonno Harley, che era mancato a un bel po’ di feste in
famiglia mentre cercava di salvare la civiltà dai nazisti. Sophie
scosse la testa, esprimendo disapprovazione e delusione. Ma in quel
gesto c’era anche rassegnazione, e Jason lo prese come un
permesso di andarsene.
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