Fine – Barbara Scudieri

SINTESI DEL LIBRO:
Era mezzanotte. Tutt’intorno un via vai di ombre e inquieti spiriti.
China su di un foglio, ascoltavo attentamente i loro bisbigli. Ascoltare
le voci del silenzio. Solo allora la mia anima si decideva a parlare, ad
abbandonare quello stagno di emozioni in cui era inconsciamente
piombata. Avevo intenzione di scrivere per tutta la notte. Scrivere
fino all’alba per poi crollare sfinita dalle mie stesse emozioni, rapita
dalle voci di quei sogni remoti che io stessa avevo magicamente
creato, dagli spiriti di quei personaggi le cui maschere erano
divenute parte integrante della mia stessa pelle.
Scrivere era la mia vita. Non c’era niente al mondo che io amassi di
più. “Scrivere significa volare in luoghi sconosciuti, che non
appartengono a nessuno se non a sé stessi”, pensavo, lasciandomi
permeare da quella sensazione di estasi che provavo ogni qualvolta
l’inchiostro, sotto i miei occhi, disegnava realtà parallele in cui la
mente si rifugiava. La stesura era quasi terminata, mancava l’ultimo
capitolo. Sbirciai fuori dalla finestra. Mi piaceva molto guardare
all’esterno, gettare uno sguardo fuori dal mio piccolo mondo.
Di fronte alla mia abitazione, al di là del giardino, si ergeva una casa
in pietra che sembrava malamente arroccata su quella terra, come
fosse in procinto di cadere da un momento all’altro. L’avevo notata
sin dall’inizio, quando tre giorni prima mi ero trasferita in una villetta
nel sud dell’Inghilterra per dedicarmi al mio romanzo. Le finestre di
quella casa, perfettamente visibili dalla mia, erano poste in maniera
asimmetrica, secondo un ordine sconclusionato: in realtà, parevano
messe a caso. Nessuna di esse era sullo stesso piano. “E’ la casa
più strana che io abbia mai visto”, pensai, guardando quella curiosa
costruzione nascosta dall’oscurità della notte. “Non vi abita più
nessuno lì”, mi aveva detto tre giorni prima, quasi rassicurandomi, il
proprietario, consegnandomi le chiavi della mia nuova casa. “E’
inquietante”, avevo asserito, distogliendo lo sguardo da quelle
finestre che, come tanti occhi indagatori, mi avevano scrutato sin
dall’inizio, mettendomi quasi in soggezione. Anche ora, guardandola
con attenzione, provavo una sorta d’imbarazzo misto a timore. Mi
sentivo osservata. Così distolsi lo sguardo da quella abitazione e
continuai a leggere il mio romanzo. Non appena iniziai, una pioggia
scrosciante si abbatté sulla campagna, la casa dalle mille finestre
sembrò scomparire inghiottita dal vapore.
Improvvisamente entrai nella dimensione dei sogni, cavalcai quei
cavalli alati sino a perdermi nei loro respiri che si mescolavano al
sussurro del tempo, la cui clessidra già decretava l’attimo in cui i
confini della realtà mi avrebbero nuovamente inghiottito nelle loro
spire. Il soffio dell’immaginazione gettava il suo caldo alito tra quelle
pagine, riempiendole di un calore evanescente. Paradossalmente,
tangibile era la sua astratta essenza.
Giunta presso casa Milton, Christine si rese subito conto
dell’aria opprimente che si respirava tra quelle mura. Attraversò
un piccolo cancello semiaperto, dietro il quale vegliava sovrano
un felino dagli occhi aguzzi, mentre il vento non dava tregua ad
una natura ormai stanca di combattere contro l’implacabilità di
un inverno che si apprestava a varcare le soglie delle stagioni,
dominandole tutte con la sua rigidità. Era previsto, per
quell’anno, l’inverno più freddo che si fosse mai registrato nel
sud est dell’Inghilterra.
L’abitazione di Christine si trovava a metà tra gli insediamenti
urbani di Forest Row e la solitudine dell’incantevole bosco di
Ashdown, situato nella contea dell’East Sussex. La signora
Milton, la sua nuova vicina di casa, la accolse con estrema
freddezza, offrendole una tazza di tè dopo aver indugiato a
lungo sull’uscio del suo castello, con il fine di scrutarla dalla
testa ai piedi.
Christine non immaginava quanto difficile sarebbe stato
penetrare nel suo mondo ordinato, stava rischiando di
compromettere quell’equilibrio apparente che quella donna
tanto meticolosamente aveva cercato di costruire, ma lo
avrebbe capito molto dopo.
La casa era, all’interno, simile ad un museo e ciò risultava in
contrasto con l’esterno, decisamente più rustico. Anfore di ogni
grandezza, chiuse nei loro antichi misteri, erano poste ovunque.
“Ossessione per gli oggetti di forma ovale”, pensò guardandosi
intorno. Una volta varcata la soglia di quella che, dall’esterno, si
sarebbe potuta definire una normale villetta di campagna,
Christine si ritrovò in una galleria d’arte. Attraverso un
corridoio pieno di quadri, raffiguranti per lo più ritratti di strani
personaggi, il cui volto fuoriusciva dal buio e la cui espressione
era quasi sempre di stupore o di paura, la nuova e misteriosa
vicina di casa la accompagnò sino al salone. I suoi movimenti
leggiadri emanavano un profumo d’incenso che la affascinava.
Una volta accomodata sull’ampio, nonché rigido divano bianco
sul quale troneggiava un enorme lampadario ottocentesco, i cui
vetri si riflettevano sulla parete come diamanti lucenti, Christine
cercò di compiacere la signora Milton, mostrando forse un
entusiasmo eccessivo nel fare la sua conoscenza.
“Finalmente dei vicini con cui scambiare qualche parola in
questo posto isolato! E poi devo ammettere che la casa è di
un’eleganza notevole, non si direbbe proprio che si tratti di una
casa di campagna. Si è occupata lei dell’arredamento?”, chiese
Christine con una sorta di imbarazzo, sorseggiando il tè
bollente che quasi le ustionò le labbra. Gli occhi di ghiaccio
della signora Milton le pungevano l’anima. La sua capigliatura
di
un nero lucente, il suo pallore spettrale, le labbra
bianchissime la facevano rassomigliare ad un fantasma.
Nonostante ciò, Christine fu colpita dalla sua bellezza. Arcana,
fuori dal tempo, sublime. Era giovane, forse sui trent’anni come
lei, ma aveva un modo di fare aristocratico, supponente, poco
consono ad una donna della sua età.
“Chi vuole che sia stata? L’arredamento di una casa è sempre
compito di una donna. Che domanda sciocca!”, aggiunse
infastidita. Seguì un silenzio imbarazzante. “Ci siamo trasferiti
qui per trovare un po’ di pace, per stare un po’ da soli”,
continuò altezzosa. A quel punto Christine balzò in piedi,
mentre un gatto nerissimo seguiva i suoi passi, divenendo la
sua ombra. “Io… devo andare… Per qualsiasi cosa la mia casa
è a pochi metri dalla sua…”, disse quasi balbettando, sotto il
peso della sensazione d’invadenza che le parole di quella
donna avevano suscitato in lei. “Non finisce il tè?”, le chiese la
signora Milton, lanciandole addosso uno sguardo diabolico.
“No… mi sono ricordata di un impegno urgente… Grazie e…
spero di rivederla presto!”, disse, dileguandosi in fretta spinta
dalla timidezza che la attanagliava. Urtò contro una lampada a
spirale che era posta all’ingresso. Si perse in quella spirale.
Come una farfalla, restò imbrigliata in quella tela finché non
trovò, finalmente, l’uscita. Le parve che mille ombre cercassero
di intralciare la sua anima in lotta tra il buio della casa e la luce
dell’esterno.
Prima di uscire intravide sulla scala a chiocciola, che
conduceva al piano superiore, una bambina rannicchiarsi come
un gomitolo di lana su uno scalino e accennare ad un sorriso.
Gli spiriti di quella casa sospirarono tutti insieme come
impazziti. “Sua madre è quella donna laggiù?”, le domandò la
signora Milton con fare indisponente sull’uscio di casa. La
figura di quella vicina misteriosa e glaciale parve a Christine
altissima. “Sì…”, bisbigliò, guardando la madre, il cui corpo
ricurvo sull’orto, posto dinanzi alla loro abitazione, era tutt’uno
con la terra.
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