Crash – Daphne Loveling

SINTESI DEL LIBRO:
«Sbrigati, Cherish, stiamo facendo tardi!» gridò Sarah dalla porta della
camera da letto. «Papà sta aspettando!»
Sorrisi mio malgrado mentre mi sistemavo i capelli castano ramati in
un severo chignon, la mia consueta pettinatura, fermandoli con una
forcina dopo l’altra per non far uscire le ciocche da tutte le parti.
«Tardi per cosa?» la stuzzicai, voltandomi per esaminare la ragazzina
di quattordici anni e i tre fratellini più piccoli che se ne stavano impazienti
accanto a lei. «Tuo padre non partirà senza di noi, lo sai.» Ero certa che la
mia voce tremante avrebbe tradito il nervosismo che si celava dietro il
tono leggero, ma nessuno di loro sembrò notare niente di speciale.
Abigail, dieci anni, secondogenita dei quattro bambini, si lasciò
scappare un lamento. Il suo volto perennemente solenne mutò in uno
sguardo di frustrazione. «Non riusciremo mai ad arrivare a Coraza»,
brontolò.
Aprii automaticamente la bocca per sgridarla per il suo modo di
parlare presuntuoso, ma la richiusi di nuovo senza dire nulla. A dire il
vero, non potevo biasimare i bambini per la loro impazienza. Era così raro
che lasciassimo il complesso, figuriamoci avventurarsi addirittura in una
città di media grandezza come Coraza. La prospettiva di un intero
pomeriggio passato a girovagare per le strade e a dare un’occhiata al
mondo esterno doveva essere stata una vacanza dalla vita di ogni giorno
molto attesa da tutti loro.
Tra l’altro, oggi non volevo che i miei rapporti con loro non fossero
amabili e gentili. Non oggi.
Finii di legarmi i capelli e andai all’altro capo della stanza,
arrischiando poi un ultimo sguardo nervoso all’interno della cesta chiusa
che avevo preparato per il viaggio. Alla fine Aaron, il più piccolo, non
riuscì più ad aspettare.
«Andiamo, Cherish!» piagnucolò attraversando la stanza per
afferrarmi la mano e tirarmi via. Aveva cinque anni e le sue guance da
lattante erano ancora rosa e paffute, ma crescendo cominciava già a
diventare più alto e riuscivo a vedere il ragazzo che sarebbe diventato da lì
a tre o quattro anni. Il pensiero mi provocò una stretta allo stomaco che
quasi mi fece ripensare al mio programma.
No, mi feci forza. Non perdere il coraggio adesso. Questa è la tua unica
occasione.
Misi la cesta sotto braccio e mi lasciai guidare fuori dalla stanza e
verso l’entrata. Gli altri bambini corsero in avanti lasciando una scia di
eccitazione davanti a noi. Il minivan bianco stava aspettando fuori e
dentro c’era il padre dei bambini, Isaiah.
Mio marito.
Aprii la portiera scorrevole e i bambini saltarono dentro, mentre io
assumevo un’espressione solenne in presenza del loro padre, come mi era
stato insegnato. Dopo aver richiuso la portiera, aprii quella del passeggero
e salii a bordo, facendo attenzione a sistemare la cesta ai miei piedi con
discrezione.
«Era ora», grugnì Isaiah. «Non c’è tempo per bighellonare.»
Non risposi. Era inutile. Qualunque cosa avessi detto lo avrebbe solo
fatto arrabbiare di più. Lo avevo sperimentato amaramente.
Viaggiammo in silenzio, l’unico suono era il bisbiglio smorzato dei
bambini. Raggiungere la città richiese circa mezz’ora e mentre
proseguivamo, guardai fuori dal finestrino. Lì era dove ero cresciuta e
dove avevo passato la maggior parte dei miei quasi ventidue anni. In un
certo senso, conoscevo il paesaggio come il palmo della mia mano, dato
che avevo percorso quella strada centinaia di volte. Eppure, era come se
avessi visto il paesaggio che stavamo percorrendo, fatto di altopiani brulli
e di terra rossa, in un film sulla vita di qualcun altro. Cercai di non
pensare a nulla, di togliermi dalla testa sia la tristezza per il mio passato sia
l’incertezza per il mio futuro.
Presto arrivammo in città e mentre io scendevo con modestia dal
sedile anteriore, i più piccoli si riversarono fuori dal van. Presi il cesto
sotto braccio e aspettai paziente che i bambini si mettessero in fila accanto
a me sul bordo del marciapiede. Poi Isaiah si avvicinò per parlarmi.
«Avrò da fare a casa di Joseph Stubb», disse severamente guardando
solo me. «Torna qui per le due.»
Tre ore. Se fossi stata fortunata, avrei avuto almeno tre ore prima che
qualcuno potesse sospettare qualcosa.
Annuii guardando verso terra, in segno di sottomissione.
«Sì, Isaiah», mormorai.
Mio marito girò i tacchi e si avviò lungo la strada. Non appena non fu
più a portata d’orecchio, i bambini cominciarono a reclamare i loro
programmi e a chiedere dolcetti.
«Possiamo fermarci a prendere un gelato?» chiese Matthew
speranzoso, piantando gli occhi nei miei.
«Certo», annuii sentendo un nodo in gola. Questo era esattamente
quello che avevo programmato, eppure ora, faccia a faccia con la realtà,
stavo quasi per crollare al pensiero di lasciare i miei quattro figliastri con il
loro padre. Una questione che mi aveva riempita di dubbi migliaia di
volte, ma li spinsi via con risolutezza. Avevo preso la mia decisione. Ora
non si tornava indietro.
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