Cara Napoli – Lorenzo Marone

SINTESI DEL LIBRO:
Un giorno tornavo in treno da Milano e accanto avevo una
famiglia: padre, madre e due bambine di sei e otto anni, partiti da
Firenze per trascorrere il lungo ponte dell’Immacolata a Napoli. Nulla
di strano, a dicembre la città è un fiorire di appuntamenti e mostre da
non perdere, iniziative che servono a rendere il Natale dei napoletani
e dei numerosi turisti che sbarcano da noi più vivace, colorato e
pieno. Penso alle camminate sul lungomare illuminato a festa, penso
al classico passeggio fra i pastori di San Gregorio Armeno, a piazza
del Plebiscito piena di bancarelle di artigianato, al profumo di
sfogliatella che si aggira per i vicoli intorno a piazza San Domenico
Maggiore. Perciò, durante il viaggio, mi sono prodigato per spiegare
alla bella famigliola curiosa le tante cose da vedere, i musei e le
proposte da non perdere.
Siamo giunti in stazione alle undici di sera e allora mi sono offerto
di scortarli a un taxi. Per un attimo ho anche pensato di chiedere loro
perché avessero deciso di arrivare così tardi, però poi ho desistito
poiché mi sembrava un tantino autoaccusatorio, come se fosse da
pazzi avventurarsi per Napoli a quell’ora. E poi erano così allegri ed
emozionati, persino le bambine, che in treno non avevano staccato
la testa dal finestrino nemmeno per un minuto, attente a scovare la
sagoma scura del Vesuvio in lontananza, le sue gobbe che mi fanno
sentire subito a casa.
Siamo scesi dal vagone e l’aria era frizzante, ma non fredda, un
gruppo di ragazzi rideva, un paio di signori con dei cartelli fra le mani
ripetevano senza sosta il nome dei loro clienti, un uomo di colore
suonava il piano con due amici che gli sbadigliavano ai lati e qualche
senzatetto dormiva in un angolo. Nulla di diverso da qualsiasi altra
stazione nel mondo. Eppure avvertivo lo stesso una specie di ansia
che ora chiamerei semplicemente senso di responsabilità. Sì, mi
sentivo responsabile di quella famiglia ma, ancor di più, responsabile
per la mia città. Lungo il percorso che ci ha condotto ai taxi, mi
guardavo in giro circospetto, come mi capita di rado, per accertarmi
che non vi fosse nulla di strano, nessun viso losco, nemmeno quei
nuovi uomini in carriera che tentano di venderti un paio di calzini
sempre con le solite battute e con un’insistenza che quasi si tramuta
in violenza, o i tizi appostati ai piedi dei binari che ti domandano se ti
serve un taxi, abusivo ovviamente.
Quando siamo arrivati alla fermata, sorridevo soddisfatto, anche
perché abbiamo dovuto attendere solo pochi istanti prima che la
sorridente famiglia fosse instradata verso una Multipla parcheggiata
a qualche metro. Mi sono accertato che i quattro sistemassero i
bagagli e prendessero posto in auto, li ho salutati calorosamente e
ho riferito al conducente l’indirizzo del bed and breakfast. Loro non
smettevano di ringraziarmi, di dirmi che ero stato gentilissimo e di
sorridermi. Mi sono infilato nel mio taxi e mi sono fatto portare a casa
domandandomi cosa fosse quella sensazione strana che mi
sembrava di avere addosso; in fondo mi ero prodigato per la mia
città, per far sentire una famiglia subito accolta.
Il
fatto è che chi non ama questa terra (i tanti maleducati, gli
scippatori, i menefreghisti), chi la sfrutta perché il prodotto Napoli tira
sempre e comunque (ed è anche a buon mercato), ti obbliga a
difenderla pure quando non ce n’è bisogno, ti costringe a fare
sempre un sorriso in più, a sentirti responsabile per qualcosa che
non hai commesso, a discolparti anche quando non sei accusato.
Come se tenessi sempre o’ mariuolo ’ncuorpo.
Già, ecco cos’era quella sensazione: ’o mariuolo ’ncuorpo.
La porta di casa accostata
Sapete a cosa pensavo? A quando qualcuno a Napoli ti invita a
cena e ti fa trovare una bella tavola imbandita, e ti accoglie con tutte
le attenzioni facendoti sentire uno di casa. Mi sono tornati alla mente
i
pranzi dagli amici, da ragazzo, quando era normale mangiare o
dormire da uno o dall’altro. Ti sedevi e la mamma di turno iniziava a
rimpinzarti di roba, e prendi questo, prova qua, e sì tropp’ sciupato, e
il crocchè della nonna proprio non puoi non assaggiarlo, si offende, e
solo un po’ di parmigiana di melanzane, e poi il dolce, e no, mangi
troppo poco, ma tua madre non dice niente? I genitori e le nonne dei
compagni diventavano per un po’ i tuoi, e ti sentivi a casa, appunto,
accolto e benvoluto.
Un po’ come accadeva, come accade, nei bar che frequentiamo
quotidianamente nei nostri quartieri, un saluto con il titolare, una
chiacchiera, un abbraccio, a volte nemmeno paghi e lasci in conto, e
via, ci vediamo domani, per un nuovo appuntamento, un cappuccino
e una discussione veloce sul Napoli. Ci si sente a casa in questi
posti, come se fossero i nostri salotti sparsi per le vie della città,
approdi a cui giungere per ritrovare quella sensazione di essere ben
accetto e trattato con tutti i riguardi. Ce l’abbiamo nel DNA
l’ospitalità, l’attenzione per il prossimo, anche per chi non
conosciamo, e penso al caffè sospeso, o penso allo stadio, quando
“l’estraneo” di turno, alla fine del primo tempo, caccia una scafarea
di frittata di maccheroni preparata con amore dalla moglie o dalla
mamma e con un sorriso ti chiede se ne vuoi un po’. I gesti di
accoglienza ci vengono naturali, come appoggiare una mano sulla
spalla dell’altro mentre chiacchieriamo, toccare in continuazione
l’interlocutore per sentirlo vicino, per fargli capire che gli vogliamo
bene o che, in ogni caso, gliene potremmo volere. Abbiamo
moltissimi difetti, però non conosciamo la diffidenza, non portiamo
maschere e non sappiamo cosa sia la boria (parlo in termini generici,
ovvio), socializziamo e scherziamo con tutti, siamo una delle poche
popolazioni al mondo a farci un baffo della stratificazione sociale, il
nobile aristocratico vive nel palazzo insieme ai ceti più poveri, il
notaio la mattina mangia un cornetto sotto casa mentre conversa
amabilmente di calcio con il parcheggiatore abusivo. Siamo pieni di
difetti, ma traspiriamo accoglienza in ogni nostra abitudine, forse
perché addestrati da sempre a far spazio, perché siamo in troppi e
c’amma stringere, perché la storia ci ha insegnato a ricevere i popoli
più che a combatterli, ché tanto ne respingi uno e la volta dopo ne
arriva un altro, insomma, sappiamo come vivere tutti insieme e non è
un problema allungare la tavola, e se c’è da ospitare a dormire
l’amico di nostro figlio, be’, in qualche modo ci arrangiamo, tanto il
nonno sono più le volte che s’addorme sulla poltrona che nel suo
letto. Crediamo nel libero arbitrio noi, convinti che ognuno possa fare
quello che vuole, ognuno campa come crede e perciò non ci
fossilizziamo se uno è nero, giallo, cattolico o musulmano,
femminiello o filibustiere, no, noi abbracciamo e accogliamo, e non ci
importa nemmeno di restare delusi, ché abbiamo un rapporto
particolare anche con la delusione, che frequenta questa terra
spesso e che, però, proprio non riesce ad attecchire, perché siamo
un “popolo che aspetta sempre la ciorta”. Abbiamo un modo tutto
nostro di credere nel futuro, di sperare che ci porti qualcosa di
buono, non temiamo perciò l’ignoto, né tantomeno il diverso,
figuriamoci se potremmo mai essere razzisti, noi che il razzismo lo
subiamo senza neanche prendercela troppo.
In questo nuovo mondo che ci sovrasta e ci fa sentire estranei a
casa nostra, che spazza ogni giorno un po’ di umanità dal pianeta,
non posso non ritenermi fortunato a essere nato a Napoli, terra di
conquista per tutti, certo, ma anche terra che conquista, perché,
salvo sporadici casi, hanno imparato più da noi gli invasori che il
contrario. Chi viene qua capisce subito che o si adatta a vivere a
modo nostro, ad amare dunque l’anarchia, il caos, a stare uno in
cuollo all’altro, tutti insieme, il buono e il cattivo, il ricco e il povero, o
peggio per lui.
Noi accogliamo tutti, e tutti diventano come noi, i cingalesi, gli
africani, i balcanici, ognuno qui trova quasi sempre una mano tesa,
un posto a tavola, e una nonna con una parmigiana di melanzane
pronta.
Altro che porti chiusi, a Napoli anche la porta di casa rimane
sempre accostata.
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