37 giorni senza aerei – Alessio Vanni

SINTESI DEL LIBRO:
Quando la nostra fragilità è arrivata, lo ha fatto in silenzio.
Adesso che le porte sono chiuse, le mani lontane, le strade vuote, gli
schermi sono diventati le uniche vie per raggiungere gli altri.
Pare che tutto respiri tranne noi, e la morte ha iniziato a mettersi in
mostra un po’ più del normale. Perché il virus non è la morte che
improvvisamente è arrivata a cancellare la vita. Il virus è la morte
che da sempre accompagna la vita, solo un po’ più in vista del solito.
Ci siamo allora allontanati gli uni dagli altri non tanto per sfuggire ad
esso, quanto piuttosto per avvicinarci a ciò che di più prezioso ci è
stato donato. Per conservare il miracolo dello stare al mondo,
mantenerlo e far sì che un giorno esso possa tornare a risplendere.
Il nostro è forse il più grande atto di generosità verso noi stessi e il
nostro prossimo di cui la mia generazione abbia mai preso parte. È
un atto d’amore di cui probabilmente la maggior parte della gente
neanche si è resa conto di compiere. Rimanendo confinato tra le
mura di casa ogni essere umano dona vita ai propri simili più vicini e
lontani.
Dal più dolce bambino al più crudele degli assassini, a tutti viene
concessa altra speranza, altro tempo, altro destino. A tutti vengono
concessi altri preziosi momenti per imparare ad apprezzare la gioia
dell’essere vivi e per rivalutare tutto ciò che da quando siamo nati
abbiamo sempre dato per scontato. È la prima volta dal secondo
dopoguerra in cui la generazione tecnologica, globalizzata e iper
consumistica di cui facciamo parte si rende improvvisamente conto
di essere fragile, vulnerabile.
Non ci sono state esplosioni, invasioni o tantomeno grida ad
avvertirci che le nostre credenze più radicate sarebbero crollate di lì
a breve. Tutto ha cominciato a scivolare lentamente dentro una
voragine di silenzio che ha spezzato per sempre le nostre amate,
orrende, abitudini.
È vuoto, adesso, il circo degli umani.
Solo alcuni piccioni distratti e la prima erba di primavera riempiono le
piazze delle città e i viottoli delle campagne. Non ci sono voci tra i
bar dei paesi e tra i sentieri delle montagne, non ci sono orme nella
sabbia che ricopre i lunghi chilometri di costa della nostra penisola e
la accompagna nel mare.
Tutto è stato rimpiazzato dalla paura. Quella sì che è ovunque.
Perché un attimo dopo che abbiamo capito quanto fosse facile per il
virus arrivare ai nostri polmoni, consumarli e far sì che i reparti di
terapia intensiva di tre quarti del mondo occidentale e non solo
arrivassero a sfiorare il collasso fronteggiando una crisi senza
precedenti, abbiamo iniziato ad avere paura.
Temiamo che prima o poi toccherà anche a noi. Temiamo per i nostri
cari. Molti di noi per fortuna temono anche per chi nemmeno
conoscono.
Ma di che cosa ha davvero paura un uomo?
In molti sostengono che l’unica paura che davvero ci appartiene sia
quella dell’ignoto. Proviamo spesso un profondo terrore e senso di
inadeguatezza di fronte a tutto quello che non conosciamo e che ci
sembra una minaccia.
Anche io la penso più o meno così. Penso che oltre a quello che non
conosciamo ci fa paura quello che non riusciamo a capire, che poi
non è altro che l’altra faccia della stessa medaglia. Quando non
conosciamo qualcosa, difficilmente riusciamo a comprenderla.
Questo fatto lo trovo profondamente umano. Trovo invece molto
meno umano il non sforzarsi di comprendere ciò che non
conosciamo. Solamente catturando ciò che abita al di fuori della
nostra zona di conforto siamo in grado di crescere, ma nonostante
questo la maggior parte delle volte tendiamo a non fare quel passo
importante che potrebbe fare la differenza.
Chissà come sarebbe diversa la nostra società se tutti noi fossimo
più propensi alla curiosità e meno schivi all’ignoto. Forse la parola
diverso verrebbe percepita con più positività. Forse avremmo uno
sguardo diverso verso i nostri simili. E siccome siamo simili ai nostri
simili, anche gli altri avrebbero uno sguardo diverso nei nostri
confronti. È un cerchio che si chiude. È il viaggio del bene che una
volta abbandonato il nostro corpo può ritornare in esso dieci volte più
potente.
Se io oggi decido di piantare un fiore sconosciuto e un passante
dopo averlo notato si sforzerà di comprendere il mio gesto, egli potrà
goderne invece che rimanerne intimorito. Così facendo anch’egli
potrà piantare lo stesso fiore per altri passanti che se a loro volta si
sforzeranno di capire, quando io tornerò nel viale troverò ad
attendermi tutto intorno un giardino pieno di fiori e godrò dieci volte
tanto di quando ho concepito la stravagante idea di piantare un
seme sconosciuto.
Ecco che la paura è un’emozione basica necessaria alla nostra
sopravvivenza ma che dobbiamo saper gestire per evitare di essere
travolti da essa. Dobbiamo incamminarci nell’arduo compito di non
lasciarle prendere il sopravvento.
In questo momento la paura dilaga; anche chi è coraggioso ne prova
a quantità industriali.
Siamo malleabili dalle nostre emozioni. È con esse che
comunichiamo l’un l’altro. Proprio per questo motivo in questi giorni
di limitata socialità ed isolamento volontario non facciamo altro che
riversarci addosso le nostre paure l’un l’altro. Possiamo ingannarci
dicendo a noi stessi che non abbiamo nulla da temere, ma la realtà è
ben diversa. La realtà è che non possiamo ignorare gli occhi degli
sconosciuti che incontriamo nelle poche ore in cui spezziamo la
nostra quarantena per andare a fare la spesa.
Occhi.
Occhi che ti guardano al di sopra delle mascherine protettive e che
sembrano dirti: “Mi dispiace non poterti parlare, cosa ci sta
succedendo?”. Occhi che evitano altri occhi e si rifugiano in loro
stessi senza trovare riparo. Occhi che non sorridono anche se
vorrebbero farlo. Occhi che non si sforzano e che affogano nella
paura, e la trasmettono, anche al più inafferrabile dei coraggiosi.
Non stiamo affatto capendo quello che ci sta accadendo. Non
capiamo il virus e non riusciamo a capire noi stessi perché non
c’abbiamo mai provato.
Siamo fragili e soffriamo, ora ne abbiamo la prova. Mi vengono in
mente le dolci parole di Joseph Merrick, uno che di sofferenza se ne
intendeva un bel po’: “Gli uomini hanno paura di ciò che non
capiscono... ”. Me le ripeto ogni giorno sperando che da esse possa
riuscire a trarre la consapevolezza e la forza per uno slancio verso
l’ignoto. Adesso che le cose stanno così me le ripeto un po’ più del
solito.
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