Racconti ritrovati – Anna Banti

SINTESI DEL LIBRO:
L’estate declinava; già il sole non bruciava con la forza dominante
dell’agosto, ma vaporava un calore umido, allungando i suoi raggi con
pigrizia. L’aria, nelle ore crepuscolari, cangiava le consuetudini della
gagliarda brezza estiva, impermalendosi spesso, come una vecchia che
sveli in un moto d’ira la sua bazza maligna. Era caduto, anche nei ragazzi,
quell’ardore goloso di bagni e di sole che nel torrido mezzogiorno aveva
acceso di brulichio la marina. Il mare, dopo qualche burrasca, s’era di
nuovo steso, ma si vedeva chiaramente, per quel suo azzurro più chiuso e
profondo, che non si sarebbe prestato ai giochi di tui, come un mese
innanzi; e che infine il contrao della buona stagione era scaduto.
Barbara era fra le ultime ragazzine che, puntualmente, ogni maina
infilavano la via della spiaggiòla. Sedute all’ombra un po’ troppo fresca dei
casoi deserti, esse tentavano di far crocchio, di ciarlare. La fine del
seembre era prossima: e già dalla collina tessuta di quercioli e di radure
fulve echeggiavano sul mare le schioppeate limpide dei cacciatori. Tre
sole amiche erano rimaste a Barbara, tre sorelle, gradini fallaci al tempio
dell’amicizia: Olga, Laura, Gisella, intorno a cui si avvolgeva, partendo da
un invisibile roccheo d’oro, il filo scorrevole di una dolce erre francese.
Pastora, in solitudine, di quelle pecorine a un trao mansuete, essa le
guidava con arbitrio arioso in un mondo di cristallo dove le ragazzine
stanno insieme da maina a sera, sono affabili e schiee, unite da un pao
chiaro e preciso come quello delle rondinelle. Soltanto a noe, tornata a
casa tra la mamma e la nonna, Barbara si sentiva spodestata, e resa a
quello stato che tuo l’anno era il suo: quello di una bambina solitaria e
sorvegliata, a cui non possono capitare molte sorprese. Allora uno
sconforto indistinto annebbiava i suoi recenti trionfi, come se le pareti
domestiche ricusassero di rimandarle l’eco delle sue immaginazioni; e una
brua scontentezza saliva a intorbidarle la coscienza. Il tinello streo,
incatenato al disco chiaro della lampada sulla tovaglia, quei resti del
desinare, freddi e rassegati, lo strascicar delle seggiole sull’ammaonato
polveroso, le meevano addosso una calma atona e smorta; e l’animo
s’accorgeva di essere, così vinto, caivo e meschino.
Ora una di quelle serate fu proprio nera. Fuori c’era pioggia, fin dalla
maina, e Barbara aveva passato tuo il giorno in casa delle amiche che
abitavano vicino alla spiaggia una villa moderna e pretensiosa. Nelle
stanze lucide, quasi ciadine, la sua felice sicurezza aveva oscillato come
una fiamma al vento: lì non c’era nulla da insegnare, ma da imparare tante
cose piccine e difficili, che la mamma delle fanciulle pareva custodire negli
occhi lontani, fra le ciglia socchiuse. Di quelle ore impacciate, ambigue,
Barbara si sentiva nemica e serva, ora, tornando a casa nel buio afoso; e
l’ultimo segno della trista giornata era quella soggezione irragionevole per
la governante delle amiche che stasera, l’accompagnava.
A casa anche il breve anello d’ombra intorno al tavolo della cena le
parve troppo denso, insidiato dal fragore del mare. Le mura erano complici
dell’oscurità esterna, come se avessero potuto girare misteriosamente su di
un perno invisibile e presentarsi al lume domestico, incatramate di salso e
di umidità nourna. Il vento, come un giocoliere malefico, cangiava il
mondo esterno in un solo andito streo e infinito; e la stessa immagine del
sonno prossimo faceva balzare la fantasia, quasi per il sospeo di una
insidia, distruggendo le consuetudini beate della fiducia infantile.
E, proprio quella noe, la bambina senza storia vide muovere le
pulegge veloci e silenziose di un “avvenimento”.
Annegata di sonno, eccola risommare, uncinata da una fiamma di
candela insistente; e l’allarme di quella fiamma ha una voce bassa, trepida,
che scandisce quasi con sforzo delle frasi corte, divise da lunghe pause: la
voce della mamma. Le pupille finalmente aperte riuniscono come per
l’ostinazione di un sogno che vuol esser continuato, un gruppo insolito: la
mamma ria presso il leo della nonna: ria, ma col volto e le spalle chine
di chi scruta, aentissimo, i moti di un essere o di una cosa appena
visibile. La nonna, più pallida dell’usato, siede sul leo con una forza e un
peso che la fan quasi abbarbicare alle prode: pare spinta in avanti da un
vento senza voce che risponda con forza concentrata a quello che geme
ancora, di fuori, tra le persiane. Gli occhi grigi son gravati da una
pesantezza acquosa ed esprimono un disgusto assoluto, categorico. Sulle
mani d’avorio giallino, assorbe troppa luce, estraneo, il filo soile
dell’anello d’oro.
Un impulso ingrato, ma ferreo, che s’identifica col brivido di freddo
della sveglia e della scopertura, ha già messo in piedi la bambina. Di chi è
questa voce roca che enuncia, anch’essa delle corte frasi, che interroga,
che, alla disperata, offre aiuto? Stupita, sgomenta, Barbara crede ancora di
dormire mentre affronta la scala nera, mentre scende quei gradini che non
furon mai così alti e ripidi come ora, bauti di sbieco da un riflesso di
bugia nourna.
Bisogna entrare nella cucina, spingere la porta che non si chiude,
muovere col baente e sorprendere l’aria addormentata che rifluisce con
uno schiaffeo sulle gambe nude. Come starà ora la nonna? Bisogna far
presto a svegliare il fuoco, gli utensili, ogni cosa. Perché trema così
smisuratamente la bugia, poggiata in piano sul camino? Barbara non sa
come spendere i suoi gesti che la fiamma scompone e ingigantisce sulle
mura con balzelloni irragionevoli, le par d’essere spiata da un occhio
allarmato e feroce, e cerca di farsi coraggio menando di gran soffieate
soo al fornello. A momenti, quando la fiamma tua inclinata da un lato,
pare abbandonarsi e cedere alle tenebre, la bambina è posseduta da una
disperazione così urgente che, a occhi serrati, affrea col desiderio
l’istante in cui potrà finalmente misurarsi senza aiuto col buio, e realizzare
pienamente l’orrore di un’apparizione o il miracolo di un’alba improvvisa
e benefica. Finalmente l’esperienza contenuta nella lunghezza dei minuti le
insegna i movimenti calmi e allenta i baiti del suo cuore: la candela fila
ora quasi immobile; la brace già si tinge di un rosa incandescente. Una
tranquillità nuova, incantata, si sprigiona dal meccanismo della faccenda
che procede; i sensi, avviluppati in un nodo chiuso nello spasimo dello
sgomento, si distendono e cominciano ad agire indipendenti. Ecco che il
vento soffia con minore accanimento, e, a trai, cessa addiriura. In quelle
pause il silenzio della noe è come una bevanda ristoratrice, come una
presenza amica; e, quando è più profondo, ne affiora timidamente la voce
lontana del mare. Rimangono testimoni minaccevoli di un momento
ansioso e precario, le parole della mamma che piovono eguali e vigili come
sentinelle giù dal primo piano; e quell’odore nauseabondo dei testi caldi
che sale dal fornello infuocato.
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