Prigioni di carta – Riccardo Maria Bonomo

SINTESI DEL LIBRO:
Una luce accecante nell’oscurità. Forse è questo che percepisce
un bambino strappato via dal ventre della madre, da un nulla
indefinito senza tempo e senza nome, e scaraventato in un nulla che
ci illudiamo sia tutto. Gli occhi si schiudono da un lungo sonno, il
cuore palpita fragorosamente, il primo vagito spalanca le porte della
vita: è così che assaggiamo per la prima volta la paura dell’ignoto,
tra un turbinio di emozioni contrastanti, gettati in un mondo che non
ci appartiene.
Questa sensazione è quanto di più simile a ciò che sperimentai
quel dì nefasto, le cui tracce sono ormai sbiadite nella mia memoria,
quando fui rapito alla vita e mi risvegliai in questo luogo. Non mi
resta molto tempo, presto verranno a prendermi: chi siano e da dove
vengano non so, né perché mi abbiano rinchiuso qua. Forse
qualcuno leggerà la mia storia, scritta su queste immense pareti che
mi circondano da quel lontano giorno. Allora ricordavo ancora il mio
nome.
II. PANE E INCHIOSTRO
Il sapore del pane, il sibilo del vento, il fruscio delle foglie, il calore
del sole, le risate dei bambini: immagini sfocate, frammenti di un
passato perduto, di quando si viveva là fuori.
Come un cieco mi faccio strada tra i ricordi dell’uomo che ero,
scrollando le vesti di anime mute, che non mi parlano e non
ascoltano più: e mi sovviene la vicenda di quell’eroe greco, Orfeo, un
folle che credeva di poter riportare in vita la compagna defunta, ma
che per l’ansia di riaverla la perse per sempre. Così brancolo tra i
fantocci del mio passato, cercando risposte. Ma, come mi volto a
interrogarli, svaniscono nei meandri della mia psiche.
Eppure, tra tutti, un ricordo si staglia vivido davanti ai miei occhi, e
non fugge: una distesa boschiva appare in lontananza, come
un’ampia macchia dalle tinte rosse, gialle e ocra sulla tavolozza di
colori di un pittore maldestro. Il sibilo del vento si diffonde per il
bosco e la campagna circostante, portando sin qui il respiro della
foresta e accarezzando la mia pelle, una sensazione piacevole che
non avvertivo da molto tempo: dev’essere autunno. Provo un fastidio
alle pupille, che mi costringe a chiudere per un attimo le palpebre:
non ricordavo più che effetto potesse avere la luce del sole sugli
occhi, il calore che riscalda la mia pelle. Sento dei passi alle mie
spalle e delle risa, mi volto e scorgo una grande casa di campagna,
di quelle col tetto spiovente in mattoni, ampie finestre luminose e un
piccolo terrazzo che dà sulla strada: dei bambini giocano proprio lì,
sul terrazzo di quell’abitazione, che non ricordo di aver mai visto
nonostante mi appaia familiare. Questi ragazzini sono così
spensierati: uno di loro ha un grande cappello di paglia, le lentiggini
sul viso rotondo, una chioma bionda e orecchie a sventola, sembra
essere il più grande. Gli altri due, altrettanto grassi e pieni di sé, ma
visibilmente più piccoli di quello che pare essere il loro leader,
giocano tra loro con una palla di stoffa consumata e rattoppata.
Ma, più di tutti, mi colpisce un ragazzino diverso dagli altri, seduto
all’ombra di un pino, poco lontano dai suoi coetanei: ha un’aria
malinconica, il viso scarno e le braccia ossute, deboli.
leggenditaly.com Indossa una maglia consunta dal tempo e un
pantaloncino di velluto bluastro, unico capo elegante su quel
corpicino così cagionevole.
Quelle fragili mani sono tutte prese in un’attività che sembra
assorbirlo completamente: tiene una pergamena in una mano e ci
scrive sopra con una penna d’oca, intingendola freneticamente in un
calamaio ai suoi piedi.
Accanto a lui un cesto con del pane, fresco, croccante, molto
diverso da quello che… Mentre mi lascio andare a questi pensieri,
improvvisamente si volta a guardare verso di me, come impaurito,
con dei grandi occhi verdi e uno sguardo penetrante come la lama di
un coltello. Ma proprio allora la visione si interrompe bruscamente e
vengo riportato alla mia squallida realtà da un suono stridulo che ho
imparato a conoscere fin troppo bene: il rintocco che batte l’ora del
pranzo.
Prima di uscire dalla cella, però, noto sul pavimento il calamaio e
solo un tozzo di pane: ho dovuto barattare il resto per avere altro
inchiostro.
III. L’ORA DEL RANCIO
Le giornate nella prigione sono scandite dal suono assordante
della campana della torre di osservazione, secondo un sistema di
intervalli regolari: un rintocco secco batte l’ora del pranzo, in un
luogo che qui chiamano il “porcile”. Ci radunano tutti in un corridoio
stretto e lungo, buio e maleodorante, che conduce sino a una sala
coi tetti bassi, incrostati di muffa e fatiscenti. L’aria è resa
irrespirabile dal fumo denso che viene dalle cucine e dal lezzo delle
stesse vesti con cui ci siamo risvegliati qui dentro: è tutto ciò che ci
lasciano della vita di prima.
Alcuni di noi sono arrivati qui da poco, e non ricordano nulla del
loro passato. Altri hanno ricordi confusi, vaghi, e vi si ancorano ben
stretti, come fosse il loro tesoro più prezioso, diffidando di tutti e di
tutto qui dentro. Altri non ricordano più neanche il loro nome: io
appartengo a quest’ultima categoria. Ma tutti abbiamo una cosa in
comune: non sappiamo il motivo per cui ci troviamo qui, di quale
colpa ci siamo macchiati per finire in quest’inferno, né chi ci abbia
trascinati in questo luogo.
Ognuno ha la propria teoria sui guardiani delle prigioni: alcuni
dicono siano uomini brutali, ricchi e potenti, capaci di tutto; altri
credono persino che dietro le loro armature nere come la pece si
celino creature abominevoli, assetate di sangue umano, e
attribuiscono a questo le sparizioni di alcuni detenuti. Si tratta solo di
storie, dicerie, che tengono impegnate le nostre menti per non
rischiare di impazzire in questo labirinto senza uscita: o almeno così
preferisco pensare. Quel che è vero, però, è che quotidianamente
qualcuno scompare: nel caso in cui riesca a fuggire, nessuno ritorna
per raccontare dove sia stato, e come biasimarlo.
In un tempo che mi appare oggi remoto, un uomo catturò la mia
attenzione tra i detenuti: non sembrava uno di noi. A differenza degli
altri prigionieri, era un signore distinto, sulla mezza età, in giacca e
cravatta, pantaloni di seta nera e un paio di scarpe da passeggio.
Portava con sé una ventiquattrore da lavoro. Mi incuriosì il suo
portamento elegante, impeccabile, in un luogo come quello e davanti
a un pasto ripugnante. Mi avvicinai per osservarlo meglio, qualcosa
mi affascinava in lui.
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