Nient’altro che noi – Federica Alessi


SINTESI DEL LIBRO:
Un’altra estate a Myrtle Beach stava terminando, e il mio secondo
anno di college stava per iniziare. Essere a casa era come sempre:
magico. L’odore salmastro dell’oceano nell’aria che respiravo
sempre a pieni polmoni mi inebriava le narici, il suono delle onde era
musica per le mie orecchie, il chiacchiericcio sul pontile dei turisti e
le risa dei bambini che correvano sulla spiaggia mi facevano stare
bene. Ero ancora a casa e già mi mancava. Sapevo che tutto quello
a cui ero legata mi sarebbe mancato fino a quando non avessi fatto
ritorno per le prossime vacanze: quelle del Ringraziamento e quelle
natalizie. Ma a una parte di me mancava anche l’appartamento che
condividevo con le mie amiche, le feste a cui partecipavo, le serate a
guardare una nuova serie su Netflix sul divano e sopra ogni cosa, mi
mancavano loro: Dawn e Piper. Formavamo un bel trio. Eravamo un
mix di caratteri e colori diversi e nonostante tutto riuscivamo ad
andare d’accordo.
«Mamma, dove posiziono questi cofanetti?», chiesi a mia madre,
affacciandomi alla porta sul retro con uno scatolone stretto tra le
mani mentre aiutavo lei e Avery allo Sweet Shop ad allestire la
nuova vetrina con alcuni articoli in saldo. Lo Sweet Shop era
diventato un negozio di souvenir e oggettistica per l’arredo della
propria casa. che Mia madre e Avery lo avevano aperto proprio nel
centro di Myrtle Beach, all’interno del Grand Strand. Era un modo
per ricordare quelle che un tempo erano state Sweet Girls e che ora
non c’erano più, le più anziane ci avevano salutato da tempo, tra
queste Rachel, la mia bisnonna. Mia madre e Avery avevano dato il
via a quell’attività quando avevo terminato il liceo ed ero partita per il
college. Ero fiera di quelle due donne e ogni tanto Lora e la madre di
Avery venivano ad aiutare. Le consideravo come le nonne che non
avevo mai avuto, entrambe mi avevano insegnato a dare valore
anche alle cose più piccole, che esse fossero state materiali oppure
no. Consideravo anche i migliori amici dei miei genitori, Avery e
Connor, come gli zii che non avevo. Erano sempre stati uniti e
stimavo quelle coppie per la loro amicizia sincera e per il bene
reciproco che si dimostravano. Insieme, mio padre e Connor,
avevano dato vita alla Walker & Riley Surf School. Nelle loro vene
scorreva l’acqua dell’oceano, non avrebbe potuto essere diverso il
loro futuro. Erano legati al surf, tanto quanto lo erano a Myrtle
Beach. Avevano ricordi e altri erano intenzionati a crearne. Ed ero
orgogliosa di loro due.
«Dovrebbe esserci uno spazio ancora libero in un angolo del
tavolo, quello verso la vetrata che affaccia sul molo», rispose
sorridendomi mentre era alle prese con legno e colla vinilica. Mia
madre era ancora bella. Aveva quarantacinque anni e ne dimostrava
dieci in meno. Il suo viso sembrava ancora quello di una giovane
donna, quello di cui mio padre si era innamorato al primo istante, a
volte li sorprendevo mentre si coccolavano. Sognavo un amore
come il loro: genuino, sincero ed eterno. Papà sosteneva che io e la
mamma ci somigliassimo parecchio sotto molti aspetti, ma erano i
tratti elfici e il colore dei capelli, più di ogni altra cosa, a renderci
simili perché per il resto ero l’esatta copia di papà.
Mi diressi verso il punto indicatomi, posai lo scatolone sul parquet
di legno chiaro e iniziai a tirare fuori i cofanetti decorati con le
conchiglie e i miei pensieri iniziarono a ricordare il passato. Quando
Joshua e io, da bambini, giocavamo sulla spiaggia e a quanto ci
divertivamo a raccogliere le casette dei molluschi o a imbottigliare
sogni per poi lasciarli navigare nell’acqua. Non vedevo Josh da mesi
e quando facevo ritorno a casa, per le feste o per le vacanze
primaverili, lui faceva sempre il possibile per evitarmi nonostante
frequentassimo lo stesso college. E la sua indifferenza nei miei
confronti era ogni volta un colpo al cuore. Eravamo nati e cresciuti
insieme grazie ai nostri genitori che erano amici, avevamo condiviso
ginocchia sbucciate e zucchero filato ma da tempo sembrava che lui
avesse trovato altri amici e che io non fossi più importante per lui
come lo ero un tempo. Mi mancava la sua amicizia anche se non lo
davo a vedere. Mi mancava lui. Scacciai quei pensieri che mi
stavano distraendo e ripresi a sistemare gli oggetti su quel tavolo
anche perché, per quanto io cercassi una risposta alla sua
indifferenza, non riuscivo mai a trovarla.
Quando la porta del negozio si aprì facendo tintinnare il
campanello appeso al telaio non mi voltai e continuai il mio lavoro.
Non ero brava con i clienti.
«Mamma!», urlò alle mie spalle una voce che conoscevo bene.
La mia schiena si irrigidì. Speravo che non mi notasse ma era
praticamente impossibile visto il colore dei miei capelli che spiccava
in mezzo a tutto quel bianco e blu marino.
Fa’ che non mi noti, fa’ che non mi noti. Iniziai comunque a
ripetere nella mia testa.
«Ciao, tesoro», disse zia Avery spuntando fuori dal retro del
negozio. «Non mi dire che sei troppo grande per il bacio della
mamma, Josh?», domandò. Finito il suo secondo anno di college,
prima di rientrare a Myrtle Beach, Josh era partito per vari tour. Il
prossimo campionato di surf era vicino, e tramite mio padre sapevo
che si stava allenando per riuscire a eseguire la manovra Backflip.
«Ma lo sono, mamma», rispose lui infastidito ma allo stesso
tempo divertito.
«Ciao, ragazzi», Avery salutò gli amici di Josh. Quelli che lui
aveva sentito il bisogno di invitare a Myrtle Beach alla fine di quella
vacanza estiva. I suoi compagni di università e di bagordi collegiali.
«Salve, signora Riley», ricambiarono loro in coro i saluti.
«Papà ha detto che avevi bisogno del mio aiuto con degli
scatoloni», iniziò. «E ho portato altre braccia», aggiunse.
«Siete fantastici», gli disse. Dubitavo che lo fossero… «Emily»,
iniziò rivolgendosi a me. Lentamente voltai di pochi gradi il capo.
Giusto quello che bastava per guardare solo lei. «Ti va di controllare
che non rompano nulla?», chiese.
Mi andava? No, in realtà no, non mi andava proprio per niente di
controllare che quei tre non facessero danni ma sorrisi ad Avery lo
stesso e accennai un impercettibile sì con il capo.
«Mamma, sono grande abbastanza anche per quello e sono
sicuro che ce la caveremo benissimo tra noi».
«Tesoro», riprese. «Siete maschi». Le sue parole mi fecero
sorridere, come se in quell’affermazione si nascondesse più di un
significato.
«Ehi, Redhead!», esclamò Josh facendomi voltare il capo del
tutto. Incrociai i suoi occhi e arrossii. Cristo, invece di infuriarmi
arrossii come una scolaretta. Quando era nelle vicinanze le mie
gambe si trasformavano in gelatina e le ginocchia mi tremavano. Mi
maledissi per quella debolezza dovuta dall’effetto che mi causava la
sua presenza. Da tempo immemore non usava quel nomignolo ed
era solito farlo esclusivamente quando voleva infastidirmi o quando
voleva fare il bullo davanti agli amici ma non sapeva che in cuor mio
lo adoravo, mi faceva sentire unica.
Ero a Myrtle Beach da settimane ma quello era il primo giorno
che lo vedevo davvero perché i nostri sguardi non si erano mai
incontrati dal momento che lui faceva il possibile per evitarlo. Nei
giorni passati, rientrato dal suo viaggio, avevamo pranzato o cenato
insieme e ogni volta teneva il capo chino sul suo piatto oppure
chiacchierava della prossima stagione surfistica o di football sempre
senza calcolarmi, era come se fossi stata invisibile. Ma ovviamente
non poteva fingere indifferenza sotto l’occhio vigile dei suoi amici o
di sua madre...
Da quando l’adolescenza aveva lasciato spazio alla fase adulta,
tutto di lui mi faceva vibrare. Josh Riley sedicenne era bellissimo ma
Josh Riley ventunenne era uno strafigo pazzesco e gli ero
indifferente. Aveva sempre lo stesso aspetto ma ora, su quelle
gambe definite, possedeva muscoli che un tempo ero sicura non ci
fossero, spalle larghe, capelli castani baciati dal sole, che erano un
mix del colore dei capelli del padre e quello della madre, e un
leggero velo di barba sulla mascella squadrata. Non era più il
bambino che giocava insieme a me ad acchiapparello e che mi
spingeva sull’altalena e tantomeno era il ragazzino che mi faceva da
scudo. Era come se tra noi non ci fosse mai stata un’amicizia in
passato. Da tempo avevamo smesso di essere amici. Durante le
prime settimane del mio primo anno di college gli avevo scritto delle
e-mail per chiedergli se gli andava di pranzare o studiare insieme ma
non gliele avevo mai inviate.
Lui mi evitava, avrei fatto altrettanto.
Era inutile cercare chi non voleva essere trovato.
«Ehi, Joshua», salutai mostrandogli un sorrisino cordiale di
circostanza e iniziai a rigirarmi i braccialetti che portavo al polso per
tenermi impegnata, ma in realtà ero leggermente irritata.
«Amico, ti chiami Joshua?», chiese stupito e curioso uno dei suoi
amici. Il tizio era un bel tipo, alto e largo quanto un armadio a due
ante. Non era il genere di ragazzo che guardavo ma se mi avesse
proposto di uscire con lui non mi sarei per niente rifiutata. Tutte
sognavano di essere strette da un paio di braccia così almeno una
volta nella vita.
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