Maestra – Lisa Hilton


SINTESI DEL LIBRO:
Se mi chiedete come tutto è iniziato, la verità è: per caso. Almeno la
prima volta.
Erano le sei di pomeriggio, l’ora in cui la città ricomincia a girare
sul proprio asse, e anche se in superficie le strade erano spazzate
dal vento pungente dell’ennesimo maggio segnato dal maltempo, la
stazione era umida e soffocante, una squallida discarica di giornali
vecchi e cartoni del fast-food in cui bivaccava una schiera di turisti
nervosi vestiti di colori sgargianti e infilati come sardine in mezzo ai
musi lunghi e rassegnati dei pendolari. Ero in attesa sulla banchina
della metropolitana a Green Park, sulla Piccadilly Line, reduce da un
altro brillante inizio di settimana del mio fantastico lavoro, all’insegna
delle angherie e dei soprusi. Mentre il treno nella direzione opposta
ripartiva, dalla folla si levò un flebile brontolio generale di disappunto.
Il
display annunciava che il treno successivo era bloccato alla
fermata Holborn. Probabilmente c’era una persona sui binari. Ti
pareva, leggevi nella mente degli altri. Ma si devono ammazzare per
forza all’ora di punta? Intanto, i passeggeri sull’altra banchina si
avviavano verso l’uscita; tra loro una ragazza con un tubino blu
elettrico e un paio di tacchi vertiginosi. Un Alaïa della scorsa
stagione copiato da Zara, pensai. Di sicuro stava andando a
Leicester Square per unirsi alla massa dei soliti perdenti. Aveva
capelli incredibili, un’enorme cascata di extension con sfumature
color prugna e una specie di nastro dorato su cui si rifletteva la luce
dei neon.
«Judyyy! Judy! Sei tu?»
Si stava sbracciando con foga verso di me. Feci finta di non
sentire.
«Judy! Sono qui!»
Mentre la gente si girava, con passo malcerto la ragazza si era
pericolosamente avvicinata alla linea gialla.
«Sono io! Leanne!»
«La sua amica la sta salutando», disse la donna accanto a me,
pensando di essere gentile.
«Aspettami su, arrivo!» Ormai non mi capitava più molto spesso
di sentire voci come quella. Non mi sarei mai aspettata di risentire la
sua. Era evidente che non si sarebbe levata di torno, e il mio treno
non accennava ad arrivare; quindi mi misi in spalla la pesante
tracolla di pelle e cercai di farmi strada tra la folla. Lei mi attendeva
nel passaggio tra le banchine.
«Ehi! Mi pareva che fossi tu!»
«Ciao, Leanne», risposi cauta.
Lei fece gli ultimi passi barcollanti verso di me e mi strinse tra le
braccia come se fossi la sorella che non vedeva da un’eternità.
«Ma guardati! Iperprofessionale! Non sapevo che vivessi a
Londra!»
Evitai di farle notare che probabilmente il motivo era che non le
rivolgevo la parola da una decina d’anni. L’amicizia su Facebook non
rientrava nel mio stile, e certo non avevo la benché minima
necessità di ricordarmi da dove venivo.
Ma poi mi sentii un po’ troppo cattiva. «Leanne, stai benissimo.
Hai dei capelli stupendi.»
«In realtà non mi faccio più chiamare Leanne. Ora sono
Mercedes.»
«Mercedes? Be’... carino. Io di solito uso Judith. Mi pare più da
adulta.»
«E insomma, eccoci qua! Donne fatte.»
Al
momento mi chiesi cosa significasse veramente
quell’espressione. Chissà se lei lo sapeva.
«Senti, tra un’ora già starò allo sgobbo.» Allo sgaaabba. «Ti va di
bere un attimo una cosa? Per aggiornarci un po’ sulle novità!»
Avrei potuto dire che avevo da fare, che ero di fretta, avrei potuto
chiederle il numero come se avessi davvero intenzione di chiamarla.
Ma tanto dove dovevo andare? E in quella voce c’era qualcosa, una
familiarità che mi attirava, che mi trasmetteva un senso di solitudine
e al tempo stesso mi rassicurava. Mi erano rimaste due banconote
da venti sterline e mancavano tre giorni allo stipendio. Ma in fondo
perché no?
«Certo», dissi. «Offro io, dai. Andiamo al Ritz.» Due cocktail con
lo champagne al bar Rivoli: 38 sterline. Me ne restavano dodici sulla
tessera ricaricabile dei mezzi e due in mano. Da lì alla fine della
settimana avrei tirato la cinghia. Forse era stupido fare tutta quella
scena, ma a volte bisogna mostrarsi un po’ sfrontati. Leanne
Mercedes – infilò entusiasta nel bicchiere l’unghia finta con lo smalto
fucsia per tirare su la ciliegina galleggiante, poi sorseggiò il cocktail
compiaciuta.
«Buonissimo, grazie. Anche se personalmente negli ultimi tempi
preferisco il Roederer.»
Peggio per me che avevo voluto darmi delle arie.
«Io lavoro qui dietro», dissi spontaneamente. «Mi occupo di arte,
in una casa d’aste. Soprattutto dei grandi maestri del passato.» In
realtà no, ma non mi sfiorava neanche il dubbio che Leanne potesse
distinguere un Rubens da un Rembrandt.
«Che lusso», rispose lei, ma ora sembrava annoiata, e girava a
vuoto il bastoncino nel suo drink. Mi domandai se fosse pentita di
avermi incontrata, ma invece di provare fastidio avvertivo il
tristissimo impulso di doverle stare simpatica a tutti i costi.
«Visto da fuori, sì», risposi in tono complice, mentre avvertivo il
calore confortante del brandy e dello zucchero che mi entravano in
circolo, «ma lo stipendio è da fame. Non ho mai un soldo.»
«Mercedes» mi disse che era a Londra da un anno. Lavorava in
uno champagne bar di St James’s. «Passa per un posto di classe,
ma in realtà è pieno dei soliti vecchi schifosi. Niente di losco, eh», si
affrettò a precisare. «È un bar e basta. Ma le mance sono favolose.»
Disse che guadagnava duemila sterline a settimana. «Solo che
tutto quell’alcol fa ingrassare», aggiunse con una punta di
rammarico, dandosi qualche colpetto su un leggero accenno di
pancia. «Ma comunque non lo paghiamo. Olly dice sempre di
rovesciarlo nei vasi.»
«Olly chi?»
«Il proprietario del locale. Judy, ascolta, una volta devi passare.
Se sei in bolletta almeno arrotondi un po’. Olly è sempre alla ricerca
di ragazze. Ne bevi un altro?»
Il
tavolo di fronte a noi fu occupato da una coppia di anziani
elegantissimi, probabilmente diretti all’Opera. La donna squadrò con
occhio severo l’abbronzatura artificiale delle gambe di Mercedes e il
suo luminoso décolleté. Mercedes si mosse sulla sedia e lentamente
scavallò e riaccavallò le gambe, mostrando per un istante a me e al
poveretto seduto di fronte a lei il perizoma di pizzo nero, senza mai
smettere di fissare la signora negli occhi. Non ci fu bisogno di
chiedere se ci fosse qualche problema.
«Dicevo», proseguì mentre la donna, rossa come un peperone, si
rifugiava con lo sguardo nel menu. «Ci si diverte a pacchi.»
Apppaaacchi. «Le ragazze vengono un po’ da tutte le parti. Se ti
aggiusti un attimo, puoi fare la tua figura. Dai, si va.»
Guardai il mio completo Sandro in tweed nero. Giacca sciancrata,
gonna a trapezio sopra il ginocchio. Volevo apparire provocante sia
pure con complicità, spacciarmi per una professionista con un tocco
bohémien, o almeno questa era l’idea che mi frullava in testa
mentre, da perfetta imbranata, ricucivo gli orli per la milionesima
volta; e tuttavia al cospetto di Mercedes sembravo una cornacchia
depressa.
«Ma intendi dire adesso?»
«Sì, perché no? Ho la borsa piena di roba.»
«Leanne, non sono sicura...»
«Mercedes.»
«Scusa.»
«Dai, ti puoi mettere la mia camicetta di pizzo. Con le tue tette
starà un amore. O avevi qualche impegno per stasera?»
«No», dissi, rovesciando la testa all’indietro per raccogliere le
ultime gocce di spumante e angostura. «Figurati, nessun impegno.»
2
Da qualche parte ho letto che la relazione di causa-effetto serve a
esorcizzare il caso, la paura e lo sgomento degli umani di fronte
all’inquietante incertezza della sorte. Perché seguii Leanne quella
sera? Non era stata una giornata peggiore di altre. Ma le scelte
precedono sempre la loro spiegazione, che lo si voglia ammettere o
no. Nel mondo dell’arte, le case d’asta degne di questo nome sono
solo due. Parlo delle uniche due che realizzano vendite per centinaia
di milioni di sterline, amministrando le collezioni di duchi disperati e
oligarchi poco avvezzi ai rapporti sociali, e che dalle loro quiete
stanze spacciano secoli di bellezza e maestria artigianale per
trasformarle in sterco del demonio. Tre anni fa, quando ottenni il
posto alla British Pictures, ebbi la sensazione di essere finalmente
arrivata. Ma l’illusione sfumò dopo qualche giorno. Mi accorsi presto
che i facchini, quelli che si occupano di spostare le opere, erano gli
unici a tenerci davvero. Per tutti gli altri, vendere burro o fiammiferi
sarebbe stata la stessa cosa. Nonostante fossi stata assunta per
merito, nonostante il mio impegno e una notevole conoscenza della
storia dell’arte, dovetti ammettere che per gli standard aziendali non
ero niente di speciale. Nel giro di qualche settimana, mi resi conto
che a nessuno importava se possedevi il talento di distinguere un
Brueghel da un Bonnard: i codici da decifrare erano altri, e molto più
importanti.
Eppure, a distanza di tre anni, c’erano ancora diversi aspetti del
mio lavoro che mi piacevano. Mi piaceva entrare nell’atrio passando
accanto all’usciere in divisa e sentire il profumo di orchidee. Mi
riempiva di soddisfazione attirare gli sguardi rispettosi che i clienti
riservavano agli «esperti» mentre salivo la monumentale scala in
legno di rovere, perché ogni dettaglio della casa d’aste sfoggiava i
suoi tre secoli di monumentalità. Mi piaceva origliare le
conversazioni delle tipiche eurosegretarie, con le loro vocali francesi
o italiane che guizzavano nette come le loro pettinature. Mi piaceva il
fatto che, diversamente da loro, io non fossi in agguato per
intrappolare un finanziere di passaggio nei boccoli della mia messa
in piega. Ero fiera di ciò che avevo raggiunto: un posto da assistente
dopo un anno di stage alla British Pictures. Non per questo avevo
intenzione di restare a lungo in quell’ufficio. Di certo non avrei
passato il resto dei miei giorni a osservare immagini di cani e cavalli.
Quella giornata, la stessa in cui incontrai Leanne, era cominciata
con un’e-mail di Laura Belvoir, il vicedirettore della casa d’aste.
L’oggetto era «Da fare subito!», ma il corpo del testo era vuoto.
Avevo attraversato l’ufficio per chiederle cosa volesse. I capi
avevano da poco seguito un corso di management e Laura aveva
particolarmente apprezzato l’idea della comunicazione digitale da
una scrivania all’altra; peccato che non fosse passata prima dalla
lezione sulla videoscrittura.
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