L’amicizia – Georges Bataille


SINTESI DEL LIBRO:
Ho sperato che il cielo si lacerasse (il momento in cui l’ordine
intelligibile degli oggetti conosciuti – e tuttavia estranei – lascia il posto a
una presenza intelligibile solamente al cuore). L’ho sperato, ma il cielo non
si è aperto. C’è qualcosa d’insolubile in quest’attesa da animale da preda
accovacciato e roso dalla fame. L’assurdo: «È Dio che vorrei lacerare?».
Come se realmente fossi un animale da preda, ma io sono ancora più
ammalato. Perché rido della mia stessa fame. Non voglio mangiare niente:
dovrei piuttosto essere mangiato. L’amore mi consuma e non mi resta altra
via d’uscita che una morte rapida. Quello che aspetto è una risposta
nell’oscurità in cui sono. Forse, se non sarò fatto a pezzi, rimarrò come un
relitto dimenticato. Nessuna risposta a quest’agitazione estenuante: tutto
resta vuoto. Mentre se... ma non ho un Dio da supplicare.
Nel modo più semplice possibile, chiedo a colui che si rappresenta la
mia vita come una malattia, il cui solo rimedio sarebbe Dio, di tacere un
solo istante e, se gli accade d’incontrare un autentico silenzio, di non
temere d’indietreggiare. Poiché non ha visto ciò di cui parla. Mentre io ho
guardato in faccia questo inintelligibile: in quel momento, ero acceso da un
amore talmente grande che mi è impossibile immaginare qualcosa che lo
sia ancor di più. Vivo lentamente, felicemente, e non potrei mai smettere di
ridere: non mi sono mai caricato del fardello né della servilità rassicurante
che ha inizio nel momento in cui si comincia a parlare di Dio. Il mondo dei
vivi è posto davanti alla visione lacerante dell’inintelligibile (compenetrata
e tras gurata dalla morte, e ciononostante gloriosa): nello stesso tempo, la
prospettiva rassicurante della teologia si o re a questo mondo al ne di
sedurlo. Se questo mondo percepisce il suo stato d’abbandono, la sua
vanità disarmata che oscilla tra un vuoto di soluzioni e l’ingenua soluzione
dell’enigma che esso stesso è, allora più nulla sussiste in esso se non come
scorticato.
Se infatti esistesse, in ultima istanza, un qualche immutabile senso di
soddisfazione, perché mi sentirei respinto? Ma io so che la soddisfazione
non soddisfa e che la gloria dell’uomo consiste nella coscienza che egli ha
di non conoscere nulla al di sopra della gloria e dell’insoddisfazione. Un
giorno la smetterò di divenir tragico e morirò: solo quel giorno, poiché già
da tempo mi sono posto sotto la sua dura luce, dà un senso a ciò che sono.
Non ho altra speranza. La gioia e l’amore, la libertà serena si legano in me
all’odio per la soddisfazione.
Si può incontrare l’insoddisfazione sotto tutte le forme. Hitler era
insoddisfatto il giorno in cui entrò in guerra. Questa è la forma volgare che
la guerra rappresenta: ci si immagina che il senso di soddisfazione esiga
conquiste e gloria, e non si vede che la soddisfazione è impossibile.
Soltanto andando oltre ci si accorge che la grandezza consiste nel
riconoscersi impossibili da soddisfare.
Dio, dice Angela da Foligno (cap. 55), ha dato al glio che amava una
povertà che egli non ha mai conosciuto, e non conoscerà mai un povero
uguale a lui. E tuttavia egli ha l’Essere per proprietà. Possiede la sostanza a
tal punto che questa appartenenza è al di sopra della parola umana. E
ciononostante Dio l’ha fatto povero, come se la sostanza non fosse stata
sua.
Sono esattamente le virtù cristiane: povertà, umiltà. Che la sostanza
immutabile non sia, anche per Dio, la sovrana soddisfazione, che la
privazione e la morte siano l’aldilà necessario alla gloria di colui che è
l’eterna beatitudine – come anche a quella di chiunque possieda, a modo
suo, l’illusorio attributo della sostanza – una verità così rovinosa non
poteva essere accessibile, nuda, alla santa. Eppure, a partire da una visione
estatica, non può più essere evitata.
C’è l’universo, e nel mezzo della sua notte l’uomo ne scopre alcune
parti e scopre se stesso. Ma si tratta pur sempre di una scoperta
incompiuta. Quando un uomo muore, lascia dietro di sé dei sopravvissuti
condannati a mandare in rovina quello in cui ha creduto e a profanare
quel che venerava. Mi rendo conto che l’universo è così ma, non v’è
dubbio, quelli che mi seguiranno si accorgeranno del mio errore. La
scienza umana dovrebbe fondarsi sul suo compimento. Se è incompiuta
non è scienza, ma soltanto il fragile e inevitabile prodotto della volontà di
scienza.
La grandezza di Hegel consiste nell’aver fatto dipendere la scienza dal
compimento (come se potesse darsi una conoscenza degna di questo nome
mentre la si elabora!), ma dell’edi cio che avrebbe voluto lasciarci resta
solo una planimetria della parte di costruzione relativa al tempo che l’ha
preceduto (planimetria che non era ancora stata redatta prima di lui e che
non lo è stata di nuovo dopo). Necessariamente, quella planimetria che è
la Fenomenologia dello Spirito è solo un inizio, e un fallimento de nitivo: il
solo compimento possibile della conoscenza umana ha luogo quando
a ermo che l’esistenza umana è un inizio che non sarà mai compiuto.
Quand’anche questa esistenza attingesse la sua possibilità estrema, non
potrebbe trovare soddisfazione, quanto meno non la soddisfazione delle
esigenze che vivono in noi. Potrà forse de nire tali esigenze come false in
rapporto a una verità che le apparterrà quando sarà in una condizione di
dormiveglia. Ma, seguendo la sua stessa regola, questa verità può
diventare vera a una sola condizione: che io muoia e che non sia soltanto
io
a
morire, ma anche tutto quello che l’uomo porta in sé
d’ineluttabilmente incompiuto. Ora, è chiaro che se ciò di cui so ro è eluso
e se l’incompiuto delle cose cessa di distruggere la su cienza umana, è la
vita stessa ad allontanarsi dall’uomo; e, con la vita, la sua verità remota e
inevitabile (la sola verità che gli sia legata e che lo esprima): l’incompiuto,
la morte, il desiderio, l’implacabile sono per l’essere una ferita mai chiusa,
senza la quale non di erirebbe da un vuoto privo di luce.
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